La riforma di San Carlo

Secondo PIGI COLOGNESI, San Carlo Borromeo, come oggi Papa Francesco, incarnò l’ideale della riforma della Chiesa, accompagnandone il contenuto con la testimonianza e con gesti concreti

La Chiesa lo sa da duemila anni di essere semper reformanda, sempre bisognosa di conversione, sempre alla ricerca dei cambiamenti che la approssimo il più possibile al suo ideale. Ci sono, però, dei momenti in cui questo tema emerge con più vigore nella consapevolezza del grande corpo della cattolicità; e anche in chi la guarda dall’esterno con simpatetica curiosità o con malevolo astio. Ora stiamo vivendo uno di tali momenti e la continua ventata di suggerimenti in direzione del rinnovamento portata da papa Francesco ne è il documento più esplicito.

Può allora valere la pena ripensare ad un altro momento della storia in cui l’urgenza del rinnovamento era acutamente all’ordine del giorno. Sto parlando della «riforma» cattolica – nessuno usa più il desueto termine di «controriforma» – successiva allo scisma protestante, eminentemente incarnata da Carlo Borromeo (1538-1584), il santo di oggi. Della sua immensa opera riformatrice – che ha toccato tutti gli aspetti della vita ecclesiale e le cui tracce sono durate secoli – vorrei mettere in rilievo l’aspetto che mi sembra fondativo. Durante il suo episcopato milanese san Carlo ha messo mano alla riforma della Chiesa anche in termini decisamente organizzativi: ha convocato sinodi, ha ristrutturato la catechesi, ha revisionato gli statuti di ordini e confraternite, ha curato la riforma della liturgia; ha, cioè, messo in pratica tutti i dettami del Concilio di Trento, quello, appunto, della riforma cattolica. Penso però che la credibilità e l’efficacia di tutta questo rinnovamento risieda nel fatto che egli ha mostrato in sé, nel suo proprio comportamento, nelle sue scelte esistenziali la bellezza e la convenienza di tutte queste novità.

Pensiamo ai fedeli ambrosiani di cinquecento anni fa. Un conto è sentir proclamare l’importanza del sacramento della Confessione (sul quale il concilio di Trento aveva particolarmente riflettuto) e un altro è vedere il proprio vescovo che conduce sempre con sé il confessore per potersi quotidianamente immergere nel sacramento.

Un conto è leggere impeccabili decreti su come dovrebbe vivere una parrocchia e un altro è vedere il cardinale che in parrocchia ci viene a dorso di mulo e incontra tutti, visita la chiesa, dà indicazioni su come fare questo e quest’altro e poi, a distanza di qualche anno, ritorna per vedere come vanno le cose. Un conto è sentire una commovente omelia sulla povertà evangelica e un altro è venire a sapere che il Borromeo, membro di una delle famiglie più ricche del tempo e nipote di un papa, ha venduto il suo principato per aver di che assistere i poveri. Un conto è lamentarsi che i protestanti sono pericolosi per la fede e potrebbero infiltrarsi da oltralpe e un altro vedere Carlo che consacra una corona di Sacri Monti alla Madonna perché sia lei a proteggere il suo gregge. Ma forse l’immagine più commovente di questo metodo di riforma è quella di san Carlo scalzo, col mantello del penitente, che, abbracciato al crocifisso dove c’è una reliquia del chiodo che ha trafitto il corpo di Cristo, guida la processione per impetrare la liberazione di Milano dalla peste.

È questa testimonianza personale che convince. Convince tutti tranne chi proprio non vuol cambiare o ha tutt’altra idea di come la riforma debba essere fatta. Per esempio quell’ex frate che non voleva proprio sentirne parlare delle novità del Borromeo e gli ha sparato un colpo di archibugio.

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