Condivido in pieno il disappunto espresso da Pietro Citati in un recente articolo («Elogio delle chiese silenziose e vuote», Corriere della Sera, 28 gennaio): avrebbe voluto entrare in un chiesa del suo quartiere, sedersi su una panca e riflettere tranquillamente, ma l’edificio era inspiegabilmente chiuso. Così gli è stata impedita la significativa esperienza per cui «essere soli nella chiesa vuota dà all’anima una quiete e una profondità, che altrimenti non conosce». Tuttavia bisogna dire che le chiese cattoliche non sono principalmente il luogo delle meditazioni solitarie, bensì quello ove si riunisce in assemblea un popolo con tutto il suo carico di difficoltà ed entusiasmi, screzi ed amicizie, tensioni e generosità. Mio nonno andava a messa solo la domenica; la preparazione era lunga: si faceva la barba, indossava la camicia pulita e l’unico abito buono. La chiesa non era per lui quello che dice Citati, cioè il posto dove «tutto il resto del mondo è dimenticato». Anzi il mondo vi confluiva interamente, col volto delle preoccupazioni della settimana, del carico famigliare, dello svago che si sarebbe concesso il pomeriggio all’osteria e della fatica del lavoro che sarebbe ripreso il giorno dopo. Insomma, non una religiosità nobile e privata, ma il cristianesimo carnale e popolare.
Sì, popolare, perché la grande storia del cristianesimo è certamente quella di «minoranze» che «coltivavano una fede complessa e ardente», come scrive Citati, ma anche quella di «decine o centinaia di milioni di apparenti cristiani». Essi, secondo lo scrittore, «praticavano una fede ignara e indifferente»; in realtà quella del popolo può essere una fede incolta, ma non è affatto «ignara», perché conosce bene le poche cose necessarie alla fede: la propria miseria e la stupefacente grazia di un Dio che si incarna per salvarmi. E non è una fede «indifferente» perché su di essa si appoggia l’esistenza intera, personale e sociale.
Il fatto è che la fede cristiana non si impara con le letture colte, come invita a fare la parte finale dell’articolo; e non è affatto vero che «è impossibile afferrare le parole di Gesù, se non conosciamo la complicata religione del medio o del tardo giudaismo». Mio nonno – e come lui centinaia di generazioni che l’hanno preceduto – non ne sapeva assolutamente niente, eppure la sua fede era limpida, sicura e operativa. Il cristianesimo non funziona come apprendimento libresco, ha – direbbe Péguy – un’altra «meccanica», quella descritta da sant’Ireneo di Lione.
Egli ricorda le sere in cui il vecchio vescovo Policarpo raccontava ai suoi amici, all’ombra di un pergolato, di altre sere: quelle in cui Giovanni, il discepolo prediletto, narrava di come aveva incontrato quel giovane uomo sulle rive del Giordano, di come ne fosse stato affascinato e avesse deciso di seguirlo fin sotto la croce e fino al mattino della resurrezione.
Così Giovanni ha parlato con Policarpo, Policarpo con Ireneo, Ireneo con altri e, di generazione in generazione, la narrazione di quel «fatto» è arrivata a mio nonno. E a me. Che, a differenza di lui, ho studiato e mi sono dedicato anche, nel mio piccolo, agli «eccellenti commenti di natura soprattutto teologica» di cui Citati dice che abbiamo bisogno. Li ho spesso trovati utili e confortanti, ma non sono stati loro a convincermi della verità del cristianesimo. Né l’avrebbero potuto, perché il cristianesimo non è un libro, ma una persona. E la fede è solo la grazia di incontrare questa persona nel proprio presente. Esattamente come Giovanni, Policarpo e Ireneo.