Tra pochi giorni arriva la primavera. Dopo l’acquosa coda di questo inverno che non vuol mollare, assisteremo al rifiorire della natura, alla prepotente metamorfosi, ad esempio, degli alberi.
Ma anche questo sconvolgimento – come ogni brandello di essere personale, storico, naturale – potrà scivolare via dalla nostra attenzione senza che essa accetti di soffermarsi neanche un attimo a considerare il fremito che pur percepisce.
Possiamo però aguzzare la vista e scorgere qualcuno degli infiniti colori che quel brandello vuole aggiungere al quadro della nostra esistenza, intendere qualcuna delle infinite parole che esso dice alla consapevolezza che abbiamo di noi e delle cose. Insomma, possiamo avere lo sguardo distratto o lo sguardo del poeta.
Ed è proprio attraverso le parole di due poeti alle prese con gli alberi che voglio aiutare ad una percezione non superficiale.
Il primo è Clemente Rebora (1885-1957). Nei suoi Canti dell’infermità ha dedicato una poesia al pioppo che scorgeva dalla finestra della camera in cui giaceva ammalato, poco più di un anno prima di morire. Immediatamente Rebora percepisce il nesso tra ciò che vede e ciò che c’è in sé e in qualunque uomo che non abbia smesso di pensare:”Vibra nel vento con tutte le sue foglie / il pioppo severo: / spasima l’anima in tutte le sue doglie / nell’ansia del pensiero”.
In questa comune vibrazione di un pezzo della natura e del proprio pensiero che guarda attento, il poeta coglie il messaggio di quello che al distratto pare solo ovvio: che, cioè, l’albero si protende verso l’alto perché ha solide radici in basso:”Dal tronco in rami per fronde si esprime / tutte al ciel tese con raccolte cime: / fermo rimane il tronco del mistero, / e il tronco s’inabissa ov’è più vero”. È nell’ultima rima baciata – mistero/vero – che sta il grande messaggio: il pioppo che si innalza fecondo, il pensiero che s’arrovella, tutto ciò che è veramente vivo trae forza per quell’innalzamento in una profondità dove abita il vero, che la consapevolezza umana riconosce nella sua forma ultima di mistero. Gerard Hopkins (1844-1889) ha invece di fronte agli occhi un frassino, che è assai comune dalle nostre parti come del resto il pioppo. Subito dichiara il suo esserne affascinato:”Non tutto quello che i miei occhi vedono, vagando sul mondo, / è così latte alla mente / quanto un albero i cui rami irrompano in cielo”.
Lo sguardo del poeta non scende, in questo caso, alla radice, ma partendo da quei rami si slancia ancora più in alto; li descrive scheletrici in inverno e poi rigogliosi in primavera, quando “in vischiose ciglia tenere creste strisciano / ben aperte e nuove innidiate nell’altissimo cielo”.
È proprio il rapporto di quei rami-dita col cielo che affascina Hopkins: “Toccano il cielo, lo tambureggiano”. D’inverno “sfiorano i loro artigli la bruciante volta” e in primavera il folto delle chiome “mescola blu e sfilacciatura di verzura”. È tutta una tensione della terra ad aggrapparsi al cielo fin quasi a mescolarsi con esso.
Come il frassino, dice Hopkins, anche noi siamo generati dalla terra, ma tendiamo al cielo perché siamo fatti anche di cielo, partecipiamo dell’irrefrenabile dinamica della “vecchia terra annaspante con l’erto Cielo col quale ci figlia”.