Travolti dall’ondata di informazioni – spesso artificiosamente melmosa – che i media hanno recentemente fornito sul collegio cardinalizio, può esserci sfuggita la notizia della scomparsa di uno di loro, il belga Julien Ries, avvenuta il 23 febbraio.
Il porporato non sarebbe comunque entrato nel futuro conclave: aveva 92 anni ed era cardinale da poco più di uno. Aveva dedicato la sua vita allo studio dell’homo religiosus e all’efficace e mai banale divulgazione di questa incontrovertibile definizione dell’uomo. Lo ricordo in una memorabile conferenza al Meeting di Rimini – ci è stato ben diciassette volte – durante la quale spiegò che il nostro progenitore homo sapiens era già religioso, cioè già sentiva la domanda sul senso esauriente di sé e delle cose e percepiva il proprio legame con un mistero più grande ti tutto ciò che vedeva e che a ciò che vedeva conferisce consistenza e ordine. Da questa constatazione originaria hanno preso il via tutte le religioni storiche, tentativi multiformi di stabilire un nesso, di costruire un ponte tra sé e questo mysterium.
Ma come ha fatto – si chiese Ries – quello strano animale a pervenire ad una scoperta così impressionante, all’acquisizione fondamentale che avrebbe per sempre determinato il suo futuro di civiltà? Il fatto è che quel mammifero si era rizzato su due piedi, invece di continuare a stare sulle quattro zampe, ed aveva così potuto alzare il capo e vedere la volta stellata; il suo orizzonte si apriva infinitamente, trapassando da un rettangolo ben determinato di terra all’incommensurabile infinità del cielo. E quell’animale scoprì che c’è una strana, inspiegabile ma reale, corrispondenza tra la grandezza del cosmo, il suo ordinato moto, la sua ingovernabile potenza e la profondità di sé, che poteva chiamare «io». Ebbene, quel volgere lo sguardo agli astri (sidera) ed esserne interrogati ha un nome sorprendente: de-siderium.
L’homo religiosus è l’uomo che scopre in sé l’incontenibile dinamica del desiderio. Si parla – e per certi versi con fondati motivi – di crisi religiosa. Ma se, sulla scorta della lezione di Ries, ci poniamo dal punto di vista della religiosità come desiderio, allora le cose cambiano: il desiderio è più vivo che mai. Pensiamo, tanto per fare un esempio d’attualità, a quella grossa fetta del popolo italiano che alle ultime elezioni non ha votato oppure ha fatto scelte di rifiuto generico; al netto delle considerazioni sociologiche e delle analisi culturali sulle motivazioni della loro decisione, possiamo facilmente capire che sotto sotto c’è anche il desiderio; confuso magari, reattivo più che costruttivo, incapace di esprimersi adeguatamente, eppure presente.
Del resto è tutta gente che deve fare i conti con una quotidianità che continuamente suscita domande, evidenzia insoddisfazioni, pone problemi, cioè segnala la presenza del desiderio.
Semmai la questione drammatica è la possibilità che l’homo sapiens – nel frattempo diventato sapiens sapiens – decida di ridurre l’orizzonte dello sguardo e invece di contemplare le stelle si ripieghi nel fazzoletto di terra dove mangia, si riproduce (se ne ha ancora voglia), combatte per il territorio, soddisfa i suoi limitati bisogni e poi muore, diventando nient’altro che frammento indistinto del terreno che da vivo aveva calpestato.
Ma se una notte gli capiterà di rialzare il capo verso la volta stellata, si accorgerò di nuovo che ogni cosa porta scritto: «più in là». E tornerà a desiderare.