La scoperta di Testori

Un doppio anniversario (90 anni dalla nascita e 20 dalla morte) ha riportato alla ribalta Giovanni Testori, tra mostre, convegni e parecchi articoli. Ce ne parla PIGI COLOGNESI.

Un doppio anniversario – novant’anni dalla nascita e venti dalla morte – ha riportato alla ribalta Giovanni Testori. Mostre, convegni e parecchi articoli. Uno di questi è apparso sul Corriere della Sera dello scorso 9 aprile. La descrizione è quella, un po’ trita, dello scrittore degli eccessi (nella vita, nei contenuti artistici, nello stile) e degli scandali; e qui si assommano alla rinfusa il clamore suscitato dall’Arialda, l’omosessualità, la «furia religiosa» e la scandalosissima vicinanza a CL. Insomma, «un personaggio complesso e anche complicato».

Non v’è dubbio che Testori tale sia stato e che la sua tensione inesausta abbia determinato scelte culturali e artistiche inconsuete, così come ha forgiato un linguaggio debordante e a volte estremo. Eppure leggendo questo ritratto, qualcosa non mi ha convinto, come se all’articolista sia sfuggito il fondo di tutta questa «furia». Così, arrivato al pezzo in cui si parla di Conversazione con la morte ho deciso di rileggere quest’opera; anche perché quella sera del 7 novembre 1978 in cui Testori l’ha sussurrata, seduto su una solitaria sedia sopra il palcoscenico completamente spoglio del Pierlombardo stracolmo di ragazzi, c’ero anch’io.

Il protagonista è l’autore stesso, un vecchio teatrante che, in un lungo monologo, tira le fila della sua esistenza. Suoi interlocutori sono direttamente gli spettatori, i ricordi della vita passata e, soprattutto, la morte. Essa era appena entrata di schianto nella sua vita attraverso la scomparsa della madre, rievocata con struggimento. Proprio nel momento della morte di lei, nel protagonista avviene una radicale trasformazione. «Avevo sempre pensato che nascere alla luce non fosse un dono, ma una catena, una servitù, una prigione», dice; e per questo aveva sempre maledetto il grembo che l’aveva generato. Ora invece sa che può e deve «imparare cosa sia veramente la dimensione che non conosce misure» e cioè – per usare forse l’unica parola elevata in un testo assolutamente piano e comprensibilissimo – «l’illimite», ciò che non ha confini.

L’autore, il personaggio e l’interprete, cioè l’uomo Testori, che tutti chiamavano «maestro della morte e profeta della cenere», ha infatti compreso che la realtà non è riducibile a «cosa». Questo è l’inganno di una Ragione – Testori la scrive con la maiuscola per enfatizzare la sua pretesa disumana – usata come cappio per asservire invece che come varco che introduce «più in là di dove con la mia mente potevo pensare che la forza delle umane dimensioni sarebbe arrivata». Persino la morte non è più una semplice «cosa», seppure la più difficile da ingabbiare: essa è un trasferimento, un «passaggio da questa ad altra stanza». E così quella che prima chiamava «cagna» si trasforma in mite «capretta» che «ci guarda e guardandoci sorride», perché essa «è ancor più vita della vita».

La scoperta di Testori non è per nulla frutto di una emozione individuale e passeggera; egli sa bene che quella menzognera «ragione» deprime tutto a «chiusa, imprigionata, soffocante realtà che si mostra e cade subito» perché ha tentato di detronizzare Colui cui l’illimitata sua energia condurrebbe: Dio. «Ho detto Dio», si stupisce il vecchio teatrante. E avviene il miracolo: «Tutto è diverso; tutto è più dilatato; tutto esce da me, dai miei poveri limiti, dalle mie povere misure. Di colpo le dimensioni attorno a me si sono rotte, frantumate». Da questo miracolo prenderà il via, per Testori, la successiva, ricchissima fase creativa.


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