Questo editoriale avrei dovuto scriverlo il 28 marzo, centesimo anniversario della nascita di José Sanchez Del Rio.
Ma allora non sapevo neppure che fosse esistito e non potevo immaginare quanto grande fosse stata la sua vita. José nasce nel 1913 a Sauhayo una cittadina non lontano da Guadalajara, in Messico.
Il paese viveva allora i sussulti della rivoluzione Emilano Zapata, che si sarebbe conclusa con la nuova costituzione del 1917. Costituzione spiccatamente avversa alla Chiesa: espropriazione di beni, soppressione di ordini, chiusura di scuole e chiese fino alla vera e propria persecuzione cruenta.
A partire dal 1926 – José ha 13 anni – prende il via una rivolta armata contro il governo. Sono i «cristeros», gruppi di combattenti unificati dal motto «Viva Cristo Rey». I due fratelli maggiori di José si arruolano in questo esercito popolare, ma lui è troppo giovane.
Però non privo di coraggio e determinazione, tanto che alla fine riesce a farsi arruolare; dapprima svolge piccoli lavoretti al campo militare, come la pulizia delle armi e la cura dei cavalli, poi ottiene il rango di portabandiera del battaglione guidato da un generale. Come tale José partecipa alle battaglie dei cristeros contro le truppe federali.
In quella del 6 febbraio 1928 – non ha ancora quindici anni – si accorge che il cavallo del suo generale è stato abbattuto; smonta in fretta dal proprio e lo porta all’ufficiale. «La vostra vita è più importante della mia» gli dice per convincerlo ad accettare.
Solo e appiedato José viene facilmente catturato dai federali, che lo rinchiudono in una chiesa da loro profanata e poi trasformata in stalla e prigione. I carcerieri lo sentono recitare ad alta voce le preghiere cui era fedele fin da bambino (riuscirà persino a farsi portar la comunione di nascosto) e cercano di persuaderlo a rinnegare la sua fede, ma José risponde invariabilmente «Viva Cristo Rey».
Allora decidono di torturalo, ottenendo soltanto che il giovane invochi sempre più intensamente che il Signore gli conceda la forza di resistere. La mattina del 10 febbraio gli scorticano lentamente le piante dei piedi, gli legano le mani dietro la schiena e lo costringono a camminare su un selciato cosparso di sale fino al cimitero; è la sua via Crucis.
Davanti alla fossa preparata per lui, gli aguzzini rinnovano le promesse di onori e ricchezze se solo avesse pronunciato poche parole di rinnegamento della fede cattolica.
Dal fondo della sofferenza, con lo sguardo che solo la limpidezza di un adolescente può avere, José risponde come sempre. «Viva Cristo Rey». Lo ammazzano.
La Chiesa ha sempre avuto i suoi martiri e li ha devotamente onorati: José è stato beatificato il 20 novembre del 2005.
Recentemente papa Francesco ha detto:«La Chiesa ha più martiri oggi che nel tempo dei primi secoli».
E il martirio, per noi che magari ci lamentiamo di sciocchi contrattempi o siamo presi dal dubbio per qualche inezia, è sempre un esempio sconvolgente. Ma quando il martire è un ragazzo come José ci si trova di fronte ad una purezza disarmante: si capisce che la forza per resistere è un dono e che noi dobbiamo semplicemente accoglierlo.
Ah, dimenticavo. Come ho conosciuto la storia di José? Perché un amico mi ha fatto vedere il film Cristiada (nell’originale For a greater glory).
È una pellicola americana del 2012 che nelle nostre sale non è ancora arrivata (e magari non arriverà mai), ma che si può pescare nel gran mare di internet.