Il dogma nichilista

Siamo immersi in una cultura profondamente nichilista, dove la realtà è considerata priva di senso e in balia delle costruzioni della nostra mente. Ne parla PIGI COLOGNESI

La recensione di un recente romanzo spagnolo (pubblicata su la Repubblica, 25 aprile 2013) inizia così: «Il nostro linguaggio evoca l’illusione che la realtà abbia un significato. Essendo convinti di poter esprimere le cose con le parole, siamo convinti anche che queste parole possano conferire coerenza alle nostre storie: un inizio, una fase intermedia e una conclusione soddisfacente, Non va mai così». Fermiamoci un attimo, proviamo ad uscire dal linguaggio apparentemente asettico della critica letteraria e rileggiamo la frase cercando di scoprire se dice il vero o il falso. Cominciamo dal fondo: non succede mai che «le nostre storie abbiano un inizio, una fase intermedia e una conclusione soddisfacente». È vero solo per la parola finale; infatti una breve storia o una vita intera possono «finire male», lasciare insoddisfazione. Prescindendo dal problema che occorre definire in base a che cosa si giudichi soddisfacente o meno una conclusione, resta il fatto che ogni storia e ogni vita ha un inizio, una fase intermedia e una fine. Non si scappa: i particolari e l’insieme delle nostre esistenze sono afferrati dal tempo e, confusi, contraddittori, inspiegabili per quanto possano essere, si svolgono da un inizio ad una fine. Proprio questo dato ineluttabile costringe a porsi la questione della soddisfazione. Quel brano di storia che mi riguarda da vicino – che ha un inizio preciso scritto sulla carta di identità, una fine ignota e, in mezzo, un multiforme accadere di cose che hanno anch’esse un inizio e una fine – ha un senso, cioè una ragionevole destinazione? Siamo così alla seconda parte della frase: le nostre parole possono «conferire coerenza alle nostre storie»? La grande tradizione del romanzo ottocentesco – dai Promessi sposi a Guerra e pace – ha cercato di farlo. Nel secolo successivo si è scoperto che le cose sono molto più complicate di quanto sembrino a prima vista ed ora gli intellettuali sostengono che si tratta di impresa impossibile: nessuna storia ha una sua «coerenza». Eppure si continua a scrivere storie e, ciò che più conta, ciascuno di noi continua a chiedersi come mai una certa cosa sia andata per quel verso e non in quello contrario, ciascuno di noi, di fronte ad una contraddizione, vuol capire come mai sia così e non possiamo rassegnarci a subire l’incoerenza e l’insignificanza. Non è facile capire il senso coerente di una storia, ma affermare a priori che non ne ha alcuno è irragionevole. E infatti il recensore di cui ci stiamo occupando deve dichiarare ingenua e illusoria la possibilità di «esprimere le cose con le parole». 

Ne consegue che le parole sarebbero un puro gioco, un soffio che non indica niente; come se io, trovandomi in montagna e sentendo il grido «Aiuto!», ritenessi che si tratta soltanto di una vibrazione acustica e, invece di portar soccorso al malcapitato, continuassi tranquillamente la mia passeggiata. È certo che le parole non esauriscono mai ciò che indicano – e in questo spazio di eccedenza sta la possibilità di una continua ricerca -, ma qualcosa indicano. Negarlo è pura opzione nichilista. Esattamente come la prima parte della frase che stiamo analizzando. Perché mai «che la realtà abbia un significato» sarebbe una «illusione»? Si vede qui, nella scontatezza con cui una opinione di questo peso viene proposta come verità assoluta, uno dei dogmi più ferrei di una cultura che si proclama libera e antidogmatica. Lo sappiamo bene che il significato non è prodotto dal nostro linguaggio, dai nostri pensieri o dalle nostre abilità, ma ci alziamo tutte le mattine desiderandolo. Ne abbiamo bisogno per vivere e nessun intellettuale ci convincerà che siamo degli stupidi illusi a cercarlo.

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