Siamo nell’anno delle celebrazioni per il centenario della nascita di Albert Camus (1913-1960). Lo scorso fine settimana il «Cortile dei Gentili» – la particolare forma di incontri che Benedetto XVI ha voluto per favorire il dialogo tra la Chiesa e i non credenti – ha fatto tappa a Marsiglia e si è concentrato proprio sull’autore de La peste. Effettivamente Camus incarna un filone molto interessante dell’ateismo novecentesco, che egli coagula attorno a due parole: assurdo e rivolta. L’assurdo è la dolorosa conclusione cui giunge l’uomo moderno che, avendo rinunciato ad ogni religione, deve constatare che tutte le sue aspirazioni di giustizia, di verità, di bellezza e di amore si schiantano contro il muro dell’assenza totale di riposta.
Non risponde Dio – visto che non c’è e per di più è stato utilizzato per rimandare ad un fumoso aldilà soluzioni che l’uomo esige nel presente – e tantomeno rispondono le ideologie che la modernità ha costruito per sostituirlo; in primis quel marxismo che affascinava il suo ex amico Sartre e di cui invece Camus vedeva tutti gli orrori. La rivolta consiste nel fatto che, pur non potendo uscire dall’orizzonte dell’assurdo in cui vive, l’uomo vi si ribella impegnandosi a fare tutto quello che può per alleviare il dolore che incontra. «L’uomo – scrive Camus – deve riparare nella creazione tutto ciò che è possibile. Dopo di che i bambini continueranno a morire ingiustamente, anche in una società perfetta. Col suo più grande sforzo, l’uomo può soltanto proporsi di diminuire matematicamente il dolore del mondo. L’ingiustizia e il dolere rimarranno e, benché limitati, non cesseranno di essere uno scandalo». È una prospettiva nobile. Ma è triste; siamo come Sisifo: spingiamo faticosamente un masso su per il pendio di un ripido monte e quando raggiungiamo la cima il masso inesorabilmente rotola di nuovo in basso e si ricomincia da capo.
Ma quello che resta più vivo della riflessione di Camus non è questa conclusione un po’ amara e volontaristica, bensì la nitidezza con cui egli riconosce l’infinitezza del bisogno umano. L’incarna meravigliosamente il suo Caligola. L’imperatore si è assentato per qualche giorno e al servo che gli chiede cosa abbia fatto risponde di essere andato a cercare la luna. Il servo, abituato ad assecondare le bizze del suo padrone, gli dice che effettivamente la luna è importante, ma che, insomma, non bisogna esagerare, è meglio essere ragionevoli ed accontentarsi. Caligola replica: «Ma io non sono folle e non sono mai stato così ragionevole come ora, semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti. Questo mondo così come è fatto non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna o della felicità o dell’immortalità, insomma di qualcosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo». L’uomo, assediato dall’assurdo e in fondo insoddisfatto della sua rivolta ultimamente inconcludente, ha dunque bisogno di sperimentare una grandezza che esorbiti le sue misure, ha bisogno di incontrare l’infinito. E ciò non può che essere l’imprevedibile gratuità di un avvenimento: «Non è attraverso degli scrupoli – scrive infatti Camus nel suoi taccuini – che l’uomo diventerà grande. La grandezza viene, per grazia di Dio, come un bel giorno».