La morte di Adolfo Suárez, il primo presidente della democrazia spagnola (1976-1981), ha messo il Paese di fronte al suo miglior passato e al suo futuro. Per alcuni istanti il rumore della polarizzazione, che sembra insuperabile, è stato attraversato dalle foto in bianco e nero di un giovane politico, spesso sorridente, ritratto con vecchi franchisti e comunisti, molti dei quali protagonisti della Guerra civile. Mentre le televisioni mandavano in onda trasmissioni speciali, i giovani chiedevano in casa chi fosse quel politico a cui si stavano rendendo così tanti onori e i vecchi ricordavano aneddoti di un tempo duro, pieno di incertezza, difficoltà economiche e violenza terrorista, dove però il cinismo non aveva l’ultima parola.
Suárez e il suo lavoro sono più attuali che mai. Così come l’Italia è rimasta ingabbiata per decenni nella dialettica fascismo-antifascismo, la Spagna è caduta nella trappola del franchismo-antifranchismo, capace di avvelenare la convivenza. Il gioco è diabolico. I giovani di sinistra per insultare qualcuno gli danno del “fascista” (come facevano i rivoluzionari negli anni Trenta) e quelli di destra chiamano “rossi” (come facevano i franchisti) i loro avversari. Continuano a esserci “intellettuali” da ambo le parti: alcuni reclamano una Repubblica che era diventata il regno del caos e dell’indebolimento dei diritti fondamentali, altri vogliono recuperare la positività di una dittatura che era basata su una brutale repressione, su decine di migliaia di morti e sul risentimento.
“Sono un uomo normale, che ha tanti difetti”, diceva Suárez di sé. Non era una persona molto acculturata e non aveva alle spalle un complicato apparato di pensiero. La sua ascesa politica fu dovuta all’abilità, alla simpatia e alla sorte. Tuttavia aveva realismo e senso del bene comune, due grandi virtù necessarie per guidare la Transizione. Egli fu uno degli artefici della “eccezione” spagnola: quasi mai si riesce a passare da una dittatura a una democrazia in modo pacifico. La ricetta per riuscirci ha richiesto diversi ingredienti, utilizzati nella giusta misura.
Il realismo fece capire a Suárez che non era conveniente una secca rottura istituzionale. Con grande genialità promosse quindi un cambiamento legge per legge. E riuscì a fare in modo che le Corti franchiste accettassero una riforma politica che implicava la loro estinzione. Col tempo ebbe l’intelligenza di capire che i comunisti non erano una minaccia, ma dei possibili alleati. Non era facile avere questa chiarezza e metà degli anni Settanta, quando l’anticomunismo sembrava essere una regola aurea. Il Partito comunista spagnolo, di fatto, divenne una “pinza” essenziale per far sì che i socialisti accettassero la monarchia e i Patti della Moncloa (la riforma economica che ha accompagnato il cambiamento politico). E anche per fare in modo che il nuovo Stato si definisse aconfessionale, ma disposto a collaborare con la Chiesa cattolica.
Il processo iniziato da Suárez ha avuto come passo decisivo un’amnistia che anche i comunisti chiedevano, un’amnistia che in realtà era espressione di quello che era nell’animo degli spagnoli: la memoria viva degli orrori della guerra faceva sì che la stragrande maggioranza cercasse la riconciliazione. Questa è stata la grande saggezza di Suárez: sapere che quelli che guardavano alla tradizione cattolica e a quella di sinistra volevano superare il passato. Questa è stata la sua forza: avere dietro di sé un popolo che riconosceva l’altro come un bene. La sua opera culminò in un certo senso nella Costituzione del ’78, che nonostante i suoi difetti è stata quella che ha dato maggior stabilità nella storia della Spagna.
Venerdì scorso, quando il figlio di Suárez ha annunciato che suo padre stava per morire, ha anche aggiunto: “È nelle mani di Dio”. Questa frase è certamente uno degli ultimi contributi della famiglia Suárez in un Paese in cui la fede spesso viene privatizzata: sembra richiederlo il peso della storia . Il primo presidente della democrazia ha permesso che questo peso non fosse soffocante. Riposi in pace.