I profughi e Bach
Come scrive PIGI COLOGNESI, lo struggimento ci porta a sciogliere il nodulo cattivo dell’indifferenza e l’affanno di sentirsi costretto da meschine prospettive senza orizzonti

L’ingente mole di immagini e suoni che di solito mi percuote raramente lascia segni profondi. Ma settimana scorsa due frammenti hanno calamitato la mia attenzione, mi hanno «costretto» a fermarmici, mi hanno suggerito di ritornarci, si sono impressi nella memoria. Il primo è un frammento visivo: l’inizio del servizio fotografico che il Corriere della Sera on line ha pubblicato mercoledì scorso (penso che il lettore lo possa ritrovare facilmente anche ora).
Siamo a Yarmouk, vicino a Damasco: una larga strada un po’ concava, ai lati lo scheletro di quelle che erano state case ed ora sono macerie grigie e pericolanti. La strada è strapiena di profughi che sembrano incamminati verso un biblico esodo; in realtà si stanno avvicinando ai tavoli dell’organizzazione dell’ONU che offrirà loro del cibo. Non gridano, non spingono, non fanno gesti plateali, qualcuno anzi sorride leggermente; raramente ho visto tanta sofferenza e tanta voglia di vivere, tanta angustia e tanta determinazione a non mollare. Il secondo è un frammento sia visivo che sonoro: il concerto per quattro pianoforti ed archi di Bach, registrato nel luglio del 2002 e facilmente visibile su YouTube. Il primo movimento è allegro, danzante, tanto che i quattro solisti (Argerich, Kissin, Levine e Pletnev) si scambiano sguardi d’intesa, muovono le labbra come canticchiando, seguono il ritmo con la testa: si divertono, godendosi l’immenso fascino di quella musica. Il secondo movimento inizia con gli archi che fanno dei solenni accordi assieme ai pianoforti, poi improvvisamente violini, viole e violoncelli tacciono e i quattro pianoforti iniziano una delicatissima sequenza di note che sembrano come lo sgocciolare d’acqua da chissà quale remota sorgente.
Al di sotto di questo gorgoglio una nota rimbalza da una tastiera all’altra tendendosi come un filo che tutto collega a profondità misteriose. I solisti non cantano più, non seguono il ritmo: sono lì attoniti come si sta di fronte all’indicibile mistero. Poi di nuovo l’accordo dell’inizio e il movimento finale; dodici minuti d’incanto.
Mi sono chiesto come mai questi due frammenti – che propongo anche al lettore di guardare e sentire – mi abbiano affascinato così tanto e perché li ho percepiti uniti, come se mi dicessero la stessa cosa. Sarà senz’altro questione di gusti e di sensibilità, ma la ragione è che mi hanno suscitato qualcosa che non è facile provare nella baraonda quotidiana: struggimento.
Nel suo significato originale «struggere» significa sciogliere qualcosa attraverso il calore; si strugge il burro messo in padella o una candela accesa. Al caldo della dignitosa sofferenza di quei profughi, di quelle misteriose note che aprono su un infinito paesaggio interiore, si scioglie qualcosa di duro in me: il nodulo cattivo dell’indifferenza nei confronti di chi sta male e l’affanno di sentirsi costretto da meschine prospettive senza orizzonti. Questi due struggimenti hanno in comune molte cose: il silenzio che suggeriscono e, in esso, una punta acuta di dolore ma nello stesso tempo il germoglio d’uno speranzoso desiderio di cambiamento.
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