Come contributo alla Festa della mamma di domenica prossima vorrei offrire una breve analisi dell’uso che di “mamma” fa Dante nella Divina commedia.
In tutto il poema la parola ricorre quattro volte, con una pregnanza di significato che va in crescendo. Nell’Inferno si trova quasi di passaggio – è l’unica volta che la parola non è in rima – quando Dante sta per entrare nell’ultimo cerchio, quello dei traditori in cui l’umanità è al suo massimo degrado. Per descrivere tale suprema abiezione il poeta dice di non avere parole sufficienti; del resto l’impresa è difficile e non basta la lingua di un bambino che sia in grado di dire soltanto “mamma o babbo” (XXXII, 9).
Qui la parola non ha nessuna implicazione affettiva – forse perché l’inferno non ne è degno -, serve solo a descrivere il linguaggio puerile. Più coinvolto è il primo utilizzo nel Purgatorio. Il poeta latino Stazio sta rispondendo a Dante, che è in compagnia di Virgilio, e gli dichiara che tutta la sua arte è debitrice dell’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice poetando” (XXI, 97-98). La «mamma» è dunque la generatrice a cui siamo riconoscenti perché ci ha fatti essere quello che siamo; e infatti nel canto successivo Stazio dirà che Virgilio non solo lo ha generato alla poesia, ma gli ha anche aperto la strada della fede, che pure egli non aveva (come uno che di notte porti una lampada sulla schiena, illuminando chi sta dietro ma non se stesso). Infatti quando Dante e la sua guida raggiugono il Paradiso terrestre, per Virgilio è il momento di andarsene, il suo compito è terminato e, non avendo la fede, non potrà salire al Paradiso celeste.
La scena è altamente drammatica: al termine di un lungo corteo simbolico, arriva un carro sul quale c’è una donna velata; Dante sente subito che si tratta di Beatrice, ne è commosso e turbato e si volta verso Virgilio per chiedere conforto con lo sguardo fiducioso “col quale il fantolin corre a la mamma” (XXX, 44); ma Virgilio è scomparso e Dante piange. Ora il rapporto con la mamma è presentato nella sua essenza intima: è quello in cui ricerchiamo il conforto nei momenti di smarrimento, come bambini impauriti; conforto necessario ma fragile. Nel Paradiso ritroviamo sia il “fantolin” che la “mamma”.
Di fronte a Dante, ora guidato da Beatrice, sono comparsi tutti i beati del cielo in forma di luci; la più luminosa è Maria – la mamma celeste – che a un certo punto risale verso il cielo empireo dove i beati hanno sede. Mentre lei si allontana in alto gli altri santi – per manifestarle il loro affetto – protendono come fiamme la cima verso di lei e Dante li paragona al “fantolin che ‘nver la mamma / tende le braccia, poi che il latte prese” (XXIII, 121-122). Non si tratta più solo di un legame naturale, quindi caduco, ma eterno, stabile. È singolare che Dante immagini i beati del Paradiso che si comportano come bambini, ma è proprio questa semplicità di abbandono amoroso che fa l’essenza della vita cristiana; di qui e nell’aldilà. Non posso terminare senza citare un ultimo passo. Qui la nostra parola è al plurale, unica ricorrenza nel poema.
Il saggio Salomone sta spiegando come i beati, alla fine del mondo, riprenderanno i loro corpi, riacquistando l’integralità della propria persona. Finito il serrato discorso, gli altri beati confermano la spiegazione con un coro di giubilo. E lo fanno – spiega Dante – per manifestare il desiderio di riavere i loro propri corpi. Ma non solo per questo; lo fanno anche perché potranno riabbracciare nella carne coloro che nella carne hanno amato: “per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari” (Paradiso XIV, 64-65). Il cristianesimo è veramente il contrario di ogni dualismo spirito/carne.