Fa scandalo il fatto che un fotografo di “culto” trasformi le sale del Museo Nazionale della Calabria, dove sono custoditi i Bronzi di Riace, in un set fotografico? Non farebbe scandalo se fosse chiaro perché lo fa, per conto di chi, e cosa ne viene all’istituzione che faticosamente custodisce i due tesori. Gerald Bruneau, francese, con un passato newyorkese alla corte di Andy Warhol, oggi molto italiano in quanto compagno di Adriana Faranda (ha presentato una mostra con lei lo scorso anno ad Agrigento), nel febbraio scorso ha preso possesso della sala dove da poche settimane i Bronzi erano tornati ad essere visibili al pubblico (grazie all’iniziativa lodevole dell’allora ministro Bray). Lo hanno definito un blitz, quasi un’operazione “dadaista”, visto che i Bronzi sono stati addobbati con tanto di tanga e di veli. In realtà si è trattato di una iniziativa fatta alla luce del sole, tanti che nelle immagini di scena si vedono i guardiani che seguono il set, per altro molto complesso. La soprintendente del Museo calabrese Simonetta Bonomi, appena uscita la notizia grazie ad un’indiscrezione di Dagospia all’inizio ha fatto credere di non sapere niente della cosa. Ma ieri, dalle colonne di Repubblica, ha invece chiarito che si tratta di un’iniziativa pensata e finalizzata ad una campagna pubblicitaria per richiamare i Bronzi, per la quale erano stati arruolati (parole sue) «altri fotografi internazionali».
Quello che sconcerta in tutta questa vicenda non dunque è l’oggetto, ma il modo. L’oggetto sono le foto che sono un po’ pruriginose e fintamente osé, e che personalmente trovo non tanto irriverenti quanto modeste di qualità e molto scontate. Il modo invece riguarda la gestione di un patrimonio sensibile sotto ogni profilo come i due straordinari Bronzi. Non si sa che fine abbia fatto quella fantomatica campagna pubblicitaria, visto che l’estate è ormai andata e non s’è visto nulla. E ovviamente non si sa con quali criteri sarebbe stata pensata: i Bronzi sono oggetto sensibile non solo dal punto di vista materiale (ed è il motivo per cui in tanti, soprintendente in testa, si oppongono a un’ipotetica trasferta a Milano per l’Expo). Sono “sensibili” anche per quanto riguarda il trattamento simbolico. E quindi non possono essere lasciati alla mercé di un “grande” fotografo, senza condividere un obiettivo, un’immagine complessiva che si vuole comunicare, e un percorso.
Invece la gestione della cultura in Italia oscilla un po’ schizofreneticamente tra conservazione e improvvisazione.
Da una parte c’è il dogma della conservazione delle opere e dei reperti come principio non negoziabile; dall’altra c’è quel dilettantismo per cui si è pensato di chiamare “grandi” fotografi e non, ad esempio, molto più semplicemente, di allestire un bel sito per il Museo dei Bronzi. E oggi per la valorizzazione del patrimonio vale infinitamente di più un bel sito, con tanto di versione inglese, che non una campagna bizzarra e certamente costosa. Ammesso che lo riusciate a trovare, andatevi a vedere il sito del Museo di Reggio e ditemi se non ho ragione (per altro il dominio bronziriace.it, non si sa per quale motivo, è dell’Università di Messina).
La recentissima riforma del ministro Franceschini prevede per alcune grandi istituzioni museali italiane la creazione della figura di un “manager”. Ovviamente l’ipotesi ha sollevato la rivolta delle soprintendenze, che vedono in questa svolta una logica molto da mercato. E francamente si può capirle: anche perché la figura del manager della cultura non è figura che si possa improvvisare, né prenderla da settori che non c’entrano nulla con la gestione del patrimonio. Che però la gestione del patrimonio abbia bisogno di una scossa nel senso di una maggiore managerialità da parte di chi oggi lo gestisce. è cosa certa. Altrimenti di rischia di conservare solo un “patrimonio morto” per la coscienza collettiva.
PS. C’è solo da sperare che Gerald Bruneau abbia fatto gratis questa campagna, che nessuno ha visto e che però gli è valsa tanta e insperata pubblicità.