Perché fare fatica?
Secondo PIGI COLOGNESI non basta, sebbene sia importante, tornare a dire agli studenti che il cammino educativo implica sacrificio e pazienza. Devono capirlo prima gli insegnanti…

La riapertura delle scuole ha riacceso anche quest’anno le riflessioni sui «ragazzi di oggi», le loro caratteristiche più evidenti, i loro disagi, le novità di cui sono portatori e le attese che hanno rispetto al mondo degli «adulti», emblematicamente rappresentato proprio dalla scuola cui consacreranno – volenti o nolenti – i prossimi mesi della loro giovane vita. Mi soffermo sul breve dossier apparso su la Repubblica del 21 settembre.
Il primo articolo si intitola «Il riscatto della fatica» e vuol dimostrare quanto sia necessario nella scuola di oggi recuperare il valore e la pratica di parole cadute nel dimenticatoio, come «disciplina». Scrive poeticamente Andrea Bajani: «Si confronti lo sguardo da copia-incolla di un ragazzo che consegna una ricerca al professore, con quello di chi ha scollinato il limite di quel che non sapeva e porta un tema come una conquista, un quaderno come una bandiera conficcata sulla Luna». Cosa provoca la differenza tra i due sguardi? Che il secondo «contiene la fatica, che è uno dei legni che rendono più vivo il fuoco di un ragazzo». Da qui l’invito: «Se la scuola, i maestri, i genitori – noi – ci occupassimo di mettere quella legna, invece di cercare di evitare loro ogni fatica nella speranza di farci perdonare e amare un po’ di più dai nostri figli, avremmo fuochi più alti e meno braci su cui soffiare per paura di vedercele spegnere sotto gli occhi».
Dal canto suo Massimo Recalcati spiega come mai oggi si rifiuti proprio la fatica della «via lunga» che implica consapevolezza e accettazione dell’ostacolo, determinazione ad usare tutto il tempo necessario per superarlo evitando le scorciatoie, energie sufficienti per affermare il valore dello scopo che l’ostacolo sembra contraddire. Si preferisce di gran lunga la «via breve», quella – ad esempio – che sostituisce «l’attività faticosa della lettura» con «la recezione passiva del flusso delle immagini» oppure – peggio ancora – quella che rinuncia alla cura necessaria per la costruzione di un’amicizia o di un amore per accontentarsi della «dimensione artefatta dei legami che si moltiplicano con un clic» nei social network.
Si tratta, in definitiva, dell’elogio di due parole care all’educazione «di una volta», che per anni sono state dimenticate e spesso derise: sacrificio e pazienza. I due autori non le usano; forse per un ultimo pudore: ci vuole del coraggio a dire che nella scuola di oggi e nel processo educativo più in generale si debbono reintrodurre queste due dimensioni così antipatiche e difficilmente digeribili per ogni giovane di qualsiasi tempo e luogo.
Ma non basta di certo – sebbene sia importante – tornare a dire che il cammino educativo implica per i ragazzi sacrificio e pazienza. Il problema è «come» si può riuscire a convincerli ad accettarne la necessità. Che – a dire il vero – riguarda anche gli educatori. Si illudono gravemente se pensano di poter evitare per primi loro, e proprio mentre educano, il sacrificio e la pazienza che chiedono all’educando. Questa constatazione illumina significativamente il problema del «come». Solo vedendo nel volto dell’insegnante o del genitore che il sacrificio accettato e la pazienza praticata producono un risultato di umanità più intensa – e non lamento o insofferenza mal repressa – il ragazzo potrà ragionevolmente prendere in considerazione l’ipotesi di accettarli anche lui.
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