Come si fa a vivere ai tempi di WhatsApp?

Le applicazioni per telefonino ci conoscono meglio di noi stessi? In realtà le domande dell'era tencologica sono le stesse di sempre per tutti gli uomini. di PIGI COLOGNESI

Quando si digitano sul telefonino dei messaggi di testo – per esempio con WhatsApp – c’è uno strumento molto comodo: un suggeritore che completa la parola che si intende scrivere, evitando così di doverla comporre per intero. Se non ho capito male, il suggerimento si basa su due criteri. Anzitutto il contesto delle parole scritte precedentemente. Se, per esempio, ho scritto: «So che sei in partenza. Buon v…», è certo che, appena digitava la «v», il telefono mi suggerisce, correttamente, la parola «viaggio». Il secondo criterio è statistico e si basa su quello che ho scritto altre volte (il computer del telefono “impara” i miei modi di dire) e soprattutto su come altri hanno scritto frasi simili a quella che sto scrivendo io. Se digito: «Ci vediamo d…», siccome moltissimi hanno scritto la stessa cosa – cioè si sono dati appuntamento per il giorno dopo –, il telefonino concluderà con un corretto «domani», evitandomi la pigiatura di cinque tasti.

Mi ero messo d’accordo con un mio amico – a voce e, quindi, il cellulare non ne sapeva niente – che sarei andato a prenderlo all’aeroporto per riportarlo a Milano. Poi ho avuto un contrattempo e ho dovuto rinunciare. Prendo il telefono per avvisarlo e inizio a scrivere il messaggino: «Non ce la faccio a v…». Evidentemente intendevo concludere con il per me ovvio «venire a prenderti». E invece WhatsApp mi ha suggerito di finire la parola iniziata con «vivere»: «Non ce la faccio a vivere». Sono rimasto sbalordito: dai miei precedenti messaggi – del resto poco numerosi – non si poteva certo trarre una simile conclusione; il contesto di quello che stavo scrivendo, inoltre, non la giustificava per nulla. Non mi restava che concludere che molti che prima di me hanno iniziato un messaggio con le parole «Non ce la faccio a v…» l’avevano concluso in quel modo angosciante: «Non ce la faccio a vivere».

Ovviamente la frase porrebbe proseguire in diversissimi modi: «Non ce la faccio a vivere»: con un cane così stupido, senza fare niente, con un collega brutale, mentendo, con questo freddo, senza di te, eccetera. Eppure quel suggerimento ha scatenato l’immaginazione di un sacco di persone che scrivono semplicemente: «Non ce la faccio a vivere», punto e basta. 

Affermazione categorica che in realtà nasconde – infatti a vivere in un modo o in un altro ce la si fa, tanto che si scrive un messaggino – una domanda: come si fa a vivere? È la domanda di tutti, è la domanda di sempre, è la domanda del mondo greco e romano come li descrive Gustave Bardy nel suo La conversione al cristianesimo nei primi secoli. 

All’impegnativo interrogativo storico su come mai una religione così strana ed esigente abbia potuto diffondersi in tutto l’impero, dalle campagne alla capitale, e in ogni ceto, dagli schiavi al palazzo imperiale, non si può rispondere che in un modo: questi cristiani non solo ce la facevano a vivere, ma vivevano in una maniera tale – carica di certezza e di letizia anche di fronte alla persecuzione, ricca di aiuto vicendevole e verso tutti, consapevolmente laboriosa e festosa – che veniva voglia, se non di imitarli subito, almeno di capire cosa c’era sotto. È la medesima questione nell’epoca di WhatsApp.

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