Il genocidio democratico
In Spagna, spiega FERNANDO DE HARO, si è compiuto quello che Pasolini chiamava un autentico genocidio. E il populismo pericolosamente dilaga ferendo la democrazia

Le democrazie spagnola e portoghese sono le più giovani dell’Europa occidentale, dato che risalgano agli anni ’80. L’allora Comunità europea diede un aiuto decisivo alla Spagna perché la transizione verso un sistema più libero fosse accompagnato da uno sviluppo economico capace di favorire coesione. I fondi di Bruxelles giunsero per favorire l’uguaglianza ed evitare che l’eurocomunismo prosperasse.
Tuttavia questa freschezza democratica in Spagna non ha impedito che si arrivasse a una “usura” come quella dei paesi vicini, forse l’ha persino accelerata. I partiti politici sono cresciuti con una legge elettorale che voleva evitare a ogni costo l’instabilità degli anni ’30 e sono diventati così formazioni in cui conta poco la base sociale e molto la gestione del potere. Tuttavia queste organizzazioni non sono la causa della disaffezione verso l’architettura istituzionale. L’erosione, comune a tutta l’Europa e di cui il populismo è sintomo, ha un’origine pre-politica. Non si può spiegare solamente quale conseguenza del malfunzionamento di alcuni partiti, ed è grave che l’intellighenzia del Paese e i responsabili sociali non l’abbiamo realizzato.
In Spagna si è verificato quello che Pasolini, riferendosi all’Italia degli anni ’70, chiamava un autentico genocidio. Questa espressione era usata dal cineasta italiano per descrivere la distruzione dell’humus umano del Dopoguerra a opera della società dei consumi e della televisione. La tradizione contadina, comunista, cattolica, secondo il regista, è stata dissolta da un nuovo potere contrario a una coscienza umanistica.
Negli anni ’50 ha cominciato a trionfare il vuoto. E il ’68, nato contro la cultura borghese, ha aumentato l’imborghesimento e ha reso quasi impossibile il ripetersi di esperienze su cui si basava la vita della generazione precedente: l’io si riduce all’immediato. Frammentato il desiderio di felicità, di bellezza, del bene – che rendeva possibile riconoscere chiunque come compagno di cammino – sono rimasti solo desideri senza scopo, che galleggiano in un universo indefinito. “I nostri vecchi argomenti di laici illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere”, ha detto il regista. Una frase attualissima.
In Spagna, il processo descritto da Pasolini è avvenuto in tempi rapidi. Il passaggio da un mondo tradizionale – in cui i valori che fondano la convivenza erano affermati in modo molto meccanico – all’universo postmoderno si compie in pochi decenni. La generazione della Transizione comincia a essere vittima del genocidio, anche se non se ne accorge. Lo sviluppo del welfare è vertiginoso e si realizza grazie ad aiuti esterni. La prosperità non è accompagnata da una maggiore strutturazione sociale. Inoltre, dall’inizio del XIX secolo, molto spagnoli si sono schierati nelle file dei progressisti o dei conservatori senza alcuna riflessione critica. Tutto ciò che riguarda i fondamenti dell’esistenza si dà per scontato. Per questo smettono di essere fondamenti nel mondo in cui la civiltà cambia in maniera silenziosa. Il richiamo continuo ai valori, sia a destra che a sinistra, è come la musica di una giostra sui cui nessuno vuol più salire.
È un problema educativo. Le ultime due generazioni non sono riuscite a formulare criticamente le ragioni e i valori che hanno reso possibile la riconciliazione dopo la guerra civile, le origini del grande patto costituzionale. Dell’accordo resta una legge, ma non c’è più un substrato che alimenta la vita comune.
In questo anno in cui la Spagna andrà al voto è certamente necessario difendere il patto costituzionale dall’attacco del populismo. Ma occorre essere molto consapevoli del fatto che esso è lettera morta per la maggior parte della gente. Il desiderio di rovesciarlo è un invito a ricreare, con maturità, la vita che lo ha reso possibile. Sarebbe insufficiente una vittoria del costituzionalismo senza una rigenerazione pre-politica: la democrazia ridotta a processo formale è praticabile solamente nei libri.
Cosa può permettere questa rigenerazione? Non dare per scontata l’identità personale e sociale, fare i conti con il momento di sconcerto e rabbia, cercando nella propria esperienza il perché si considera un bene vivere con gli altri, creare imprese, lavorare, sostenere il welfare. La gravità del momento richiede di relazionarsi con se stessi e gli altri. È un esercizio cui siamo poco abituati, ma quando lo si fa arrivano belle sorprese.
In questa sfida abbiamo due nemici: l’inerzia e l’utopia. Il populismo ci provoca e ci sveglia, ma ci tenta anche con la vecchia seduzione: quella di dare la colpa agli altri, della deresponsabilizzazione. Non sono cose proprie di un uomo libero.
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