Il tramonto di Hillary e l’alba per le donne

- Giorgio Vittadini

Hillary Clinton Wonder Woman è stata bocciata dalle donne stesse perché non le rappresenta. Qual è allora il ruolo della donna nella società e nel mondo del lavoro? GIORGIO VITTADINI

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Hillary Clinton (LaPresse)

Avrebbe dovuto essere “la prima donna presidente degli Stati Uniti”, un’enfasi giocata in gran parte della campagna elettorale di Hillary Clinton. Ma non è riuscita a “rompere il soffitto di cristallo” (simbolo del freno alla carriera di categorie storicamente soggette a discriminazioni, come le donne), come ha detto lei stessa nel discorso in cui ha riconosciuto pubblicamente la sua sconfitta. Quanto accaduto segna davvero una battuta d’arresto nell’evoluzione che la funzione sociale femminile ha avuto nell’ultimo secolo?

Guardando le analisi del voto americano, sembra che a “tradire” Hillary siano state proprio le donne. Perché? Hanno percepito che di fatto la Clinton non era una di loro, che ha cercato di imporre per tutte uno schema troppo simile a quello di Wonder Woman (la “dea della guerra”), personaggio dei fumetti che proprio nelle scorse settimane l’Onu ha nominato Ambasciatrice Onoraria “per l’autodeterminazione di donne e ragazze”. Una super eroe, “un personaggio femminile con tutta la forza di Superman ed in più il fascino di una donna brava e bella”. Ma non è questa la realtà di milioni di esponenti del genere femminile in America e nel mondo, donne reali già in grado di mostrare cosa e quanto sono in grado di fare.

Il vero problema è che mentre ci sono lavoratrici che cercano di raggiungere posizioni apicali, la maggioranza di loro vive ancora una realtà di disparità nel trattamento sul posto di lavoro per il fatto di essere donna.

La proposta di Tito Boeri, presidente dell’Inps, di rendere obbligatori 15 giorni di congedo per i papà nel primo mese dalla nascita di un figlio è sembrata a qualcuno l’ennesima intrusione dello Stato nella vita privata degli italiani, ma in tutti i casi l’iniziativa ha avuto il merito di sollevare un tema oggi decisivo.

I dati Inps citati da Boeri per l’occasione mettono in luce una situazione che danneggia le donne italiane, rispetto a quelle degli altri Paesi europei: “il tasso di occupazione scende dal 65 al 50% per chi ha un figlio e al 30% per chi ha più figli” e “le donne con figli subiscono una penalizzazione del 15%” a livello salariale.

Il motivo per cui si mortifica in modo così pesante la carriera delle madri, sempre secondo il presidente dell’Inps, dipende dal fatto che “i datori di lavoro percepiscono le donne come se avessero un costo superiore agli uomini, e poi quelle che lavorano sono spesso viste come cattive madri”.

La situazione è sotto gli occhi di tutti. In molte piccole e medie aziende, così come nelle multinazionali, e persino in ambienti cattolici, la notizia che una ragazza si sposa è vista da manager e imprenditori con malanimo, proprio in considerazione di una possibile maternità. Quando poi la donna rimane incinta deve scontrarsi con una vera e propria ostilità e, al rientro, con una più o meno sottile emarginazione e comunque con un ritardo nella carriera.

“Cosa pretende di sapere visto che è stata assente così tanto tempo?”: è l’atteggiamento tipico con cui si trova a fare i conti al rientro. Sotto tutto c’è una mentalità che si spiega, ma che le ricerche non permettono di giustificare.

Si spiega per il diffuso pregiudizio ideologico di stampo “ordoliberista” secondo cui per lavorare bene occorre vendere l’anima all’azienda e avere meno legami possibile di altra natura che distolgono dal lavoro. Solo chi appartiene all’azienda affettivamente, oltre che funzionalmente, ed è disposto a sacrificare tempo ed affetti sarebbe in questa concezione produttivo.

Una ricerca della Federal Reserve Bank di St Louis su circa 10.000 economisti ha calcolato il numero e la qualità (in base al prestigio delle riviste in cui venivano pubblicate) delle loro ricerche, in relazione al numero dei figli e al periodo in cui li avevano avuti. Dall’indagine risulta che le donne con figli piccoli (fino all’età pre-adolescenziale) presentano una calo di produttività tra il 15% e il 17% rispetto a quelle senza figli, ma poi sulla lunga distanza, lo svantaggio viene recuperato. Come è possibile? Gli studiosi danno questa spiegazione: le mamme si addestrano di più al multitasking, alla efficienza organizzativa e alla velocità di esecuzione di più attività. E di queste abilità poi si avvantaggiano sul lavoro.

In generale, non è difficile intuire che una persona più ricca di valori, affetti, legami viva il lavoro in modo piùintenso ed efficace di una persona “a metà” venduta solo alla carriera.

“Quando si fanno i bucatini o si stira si può anche pensare…”, mi ha risposto con fare ironico Estela Dagum, accademica di fama internazionale, a cui avevo chiesto come avesse fatto a conciliare la carriera con la cura di marito e tre figli.

Oggi tante donne guidano aziende e lo fanno benissimo, portando un loro contributo originale. Spesso hanno mostrato una grande abilità nel cercare convergenze e sintonie. Più facilmente dell’uomo desiderano armonia, non conflittualità e sono in tante a sostenere silenziosamente società ed economia. Per questo meritano ben più ampi riconoscimenti salariali e professionali di quanti ne abbiano oggi. Il tramonto di Hillary può essere l’alba di un protagonismo più vero per le donne.

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