Non abbiamo bisogno di protettori
Hanno provocato scandalo e dubbi le parole del cardinale libanese Boutros Bechara Rai che ha detto in una intervista di non aver bisogno di aiuti e protettori. ADRIANO DELL’ASTA

Aveva scandalizzato gli osservatori occidentali, Solženicyn, quando aveva detto di non aver mai chiesto all’Occidente di liberare la Russia dal comunismo e aveva aggiunto poi, con un tono un po’ di sfida: «ci libereremo da soli». Forse non scandalizzava, ma certo sorprendeva Vaclav Havel quando, prima di diventare presidente, ancora dentro e fuori dalle prigioni cecoslovacche, ai giornalisti o agli attivisti occidentali che gli chiedevano cosa potessero fare per aiutarlo, rispondeva senza esitazione che semmai il problema era cosa potevano fare insieme.
Fino a qualche giorno fa sembravano posizioni di un tempo lontano, testimonianze di un senso di responsabilità e di umanità ormai dimenticate, prova di una consapevolezza del primato dell’«alto» rispetto ad ogni politica che oggi non si sospetta neppure lontanamente possibile, al punto che persino per commentare l’incontro di Papa Francesco con il Patriarca Kirill bisogna ogni volta fare una lunga premessa per spiegare come sia possibile leggerlo in una chiave che va al di là della politica e in una prospettiva in cui quello che è in gioco è la possibilità per l’uomo di essere pienamente se stesso in qualsiasi situazione politica gli sia dato di vivere e di lottare.
Poi improvvisamente questo accento di libertà, di responsabilità e di dignità è risuonato nell’intervista del cardinale libanese Boutros Bechara Rai, Patriarca di Antiochia dei maroniti, pubblicata dalla Stampa del 28 febbraio scorso: «Noi non abbiamo bisogno di protettori», ha detto, con un tono che può aver sorpreso il mezzo mondo che pensa di dover fare comunque qualcosa per proteggere i cristiani e l’altro mezzo mondo che si indigna perché nessuno è ancora intervenuto in maniera risolutiva.
Ed è con una sorpresa ancora più grande che si ascolta questa sfida se si considera che il Patriarca conosce per esperienza diretta la situazione del Medio Oriente, conosce benissimo la gravità dei massacri che si stanno perpetrando e la complessità della situazione politica della regione, e sa di dover fare i conti con tutto quanto ne consegue (disponibilità a una certa condiscendenza, ad alleanze, compromessi); ma evidentemente sa anche che il cuore di tutta la vicenda e il futuro stesso della sua gente, non degli Stati o delle coalizioni di Stati, ma proprio della gente sta in altro. E questo altro viene chiamato con un nome preciso: «I cristiani non sono un gruppo etnico-religioso, e non sono un partito politico. Sono i figli della Chiesa di Cristo. La loro presenza, anche in Medio Oriente, non dipende solo dagli equilibri politici e dalle vicissitudini della storia».
Non è un caso allora che l’intervista si apra proprio con un’osservazione sull’incontro di Cuba, presentato non come un evento politico o diplomatico che va analizzato e giustificato, ma come «un fatto provvidenziale», così provvidenziale che i contenuti della dichiarazione finale vengono proposti settimanalmente dal cardinale in un programma di formazione cristiana per i suoi fedeli.
Anche qui la sorpresa non può che essere grande per chi si aspetterebbe tutt’altro e, soprattutto, qualcosa di più concreto: dall’incoraggiamento a resistere alla meditazione sul valore della tolleranza o del martirio, ma non certo sul valore dell’ecumenismo e dell’unità dei cristiani, quando sono i fondamentalisti islamici che fanno strage.
Ma è da questa radice comune in Cristo al quale tutti si convertono, e dal quale è nata una «tradizione comune» i cui testimoni sono «la Santissima Madre di Dio, la Vergine Maria, e i Santi che veneriamo», che il Patriarca maronita trova invece la capacità e la lucidità di uno sguardo umano, totalmente concreto e radicalmente sorprendente per la sua comprensività e per la sua ricchezza: non sono solo i cristiani a soffrire, ci dice, spalancando il nostro cuore alla compassione e alla solidarietà, e sfidando tutta la nostra presunzione e quel senso da cittadella assediata che in qualche caso ci rende aggressivi e in qualche altro ci fa quasi perdere la speranza.
E a questa capacità di aprirsi e di accogliere le sofferenze altrui come fossero proprie si accompagna poi una capacità di vedere le ricchezze dell’umano anche nei momenti più terribili: i cristiani mediorientali non sono «dei poveretti», ci dice il cardinale, e con i musulmani hanno «creato una cultura insieme, una civiltà insieme», qualcosa che merita comunque rispetto.
Nella comune tradizione nata da Cristo si apre uno spazio che rende capaci di accogliere l’altro e ogni sua ricchezza, davvero rinasce in forma nuova quell’«altezza» dell’umano che un tempo nella vecchia Europa aveva unito il credente Solženicyn e il laico Havel.
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