Quando succedono episodi come quello dello studente bengalese Faraaz Hossain che ha sacrificato la vita per le sue due amiche nel ristorante di Dacca, uno si chiede se ce la farebbe a compiere un gesto così… Avere il coraggio di sacrificare liberamente, potendo non farlo, la vita, il futuro, tutto in un colpo solo per un particolare, una persona. E senza riflettori, senza neanche il pathos di sentirsi martire ma semplicemente per una verità profonda che ti affiora dentro e che, evidentemente, ti costituisce a tal punto che anche nell’angoscia della tragedia resta convincente.
Una verità profonda di sé che, magari, uno non saprebbe neanche formulare a parole: chissà in cosa credeva Faraaz, e se si era mai reso conto di credere fino a quel punto.
Mi viene in mente, a questo proposito, la figura di una martire ortodossa uccisa a 34 anni durante il terrore staliniano. Nei testi agiografici Tat’jana Grimblit è descritta come una “grande missionaria ortodossa”, una “benefattrice di tutta la Russia”, ma queste frasi non le somigliano per niente. Questi cliché non danno minimamente ragione della sua persona così modesta ed enigmatica ad un tempo.
Era una donna semplicissima, figlia di un impiegato di Tomsk (Siberia); probabilmente aveva preso la sua forte fede dal nonno sacerdote ma non si era fatta monaca, pur non essendo sposata, non frequentava circoli spirituali, non era particolarmente mistica, non godeva di speciale autorità. Né si era mai distinta per gesti notevoli.
Eppure, durante le repressioni degli anni ’20-30 in Urss era diventata un’incarnazione vivente della carità evangelica grazie al fatto che di propria iniziativa si era scelta un hobby speciale: mandare pacchi con mezzi di sussistenza ai prigionieri, non necessariamente a preti o credenti, ma a chiunque ne avesse bisogno. Usava chiedere all’amministrazione delle prigioni quali detenuti non ricevevano mai niente, e sceglieva di aiutare proprio quelli, fossero anche dei criminali comuni e non dei perseguitati politici. A questo scopo spendeva tutto il suo stipendio di infermiera, e faceva continue collette tra amici e conoscenti, continuando ad allargare la cerchia degli aiuti, mese dopo mese, anno dopo anno.
Questa attività la rendeva interessante e sospetta agli occhi della polizia politica, che aveva aperto un fascicolo su di lei, non riuscendo a capire come mai si desse tanta pena per gente che non conosceva neanche. E di cui in teoria non le doveva interessare molto.
Tre arresti e infiniti interrogatori non erano serviti a svelare l’arcano: la Grimblit, in fondo, non aveva saputo spiegare a parole perché si comportava così. Diceva solo che era per amore di Dio ma all’Nkvd questo non bastava. Comunque di fronte alle accuse non era venuta a patti, non aveva pensato di rinunciare non dico a Dio, ma a quella piccola carità che faceva, per aver salva la vita. Eppure doveva ben sapere che nel 1937 l’arresto (il terzo poi!) portava dritto alla fucilazione.
Faraaz Hossein e Tat’jana Grimblit, un bengalese musulmano e una russa ortodossa, misteriosamente si assomigliano, entrambi avevano qualcosa cui tenevano più che a se stessi. Era il perno invisibile della loro persona. Una cosa invidiabile: avevano qualcosa che li faceva vivere e che è stato un buon motivo per sacrificare tutto.