La ferita che guarisce

- Fernando De Haro

La scorsa settimana sono arrivate due notizie simultanee, riguardanti i negoziati sulla Brexit e l’avvio della campagna elettorale in Catalogna. FERNANDO DE HARO

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Manifestazione in Catalogna (LaPresse)

La scorsa settimana sono arrivate due notizie simultanee: i negoziati per chiudere la prima fase della Brexit (i termini del divorzio) e l’inizio della campagna elettorale in Catalogna. Entrambi i fatti erano una conseguenza del nazionalismo. Il Governo del Regno Unito deve concretizzare la rottura con l’Ue approvata con il nefasto referendum del giugno 2016. I partiti in Catalogna cominciano a cercare voti, dopo che l’indipendentismo ha reso necessario un intervento del Governo autonomo e l’inizio dei comizi. 

Solo otto mesi fa Theresa May era partita con una posizione arrogante, chiedendo formalmente in una lettera l’uscita dall’Unione e arrivando a minacciare di non collaborare sulle questioni riguardanti la sicurezza. Alla fine il primo ministro britannico ha dovuto accettare tutto ciò che la Commissione ha chiesto. Ha accettato di pagare il conto in sospeso reclamato da Bruxelles (fino a 60 miliardi di euro) e la tutela dei diritti dei cittadini europei che vivono nel Regno Unito, tra cui la giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Non ci saranno poi frontiere tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord.

La frontiera dell’Ulster, che sembrava ostacolo insormontabile (il Governo May si regge sui voti degli unionisti), ha cessato di essere tale divenendo un’opportunità per negoziare una soft Brexit. Quel confine è il ricordo di una ferita ancora presente, quella che per anni ha seminato morti e terrore. Alzare di nuovo il confine sarebbe stato come tornare allo scenario precedente all’Accordo del Venerdì Santo (1998) che ha reso possibile la pace. E pochi erano disposti a farlo. Per evitare la frontiera tra le due Irlande si è deciso di mantenere l’Ulster nel mercato unico e nell’unione doganale in cambio di una “convergenza normativa” tra la provincia del Regno Unito e la Repubblica d’Irlanda (Ue). Già hanno cominciato a farsi sentire le voci che chiedono la stessa soluzione per l’intero Paese. Se così fosse, la Brexit si sostanzierebbe in una formula associativa come quella della Norvegia: la partecipazione al mercato unico senza l’intervento nei suoi organi decisionali. Una soft Brexit, che nel tempo sarebbe reversibile perché non ha alcun vantaggio.

Non sembra un caso che la ferita aperta tra le due Irlande, la memoria e il desiderio di non tornare a un passato oscuro, sia stata una chiave per sciogliere parte della cecità ideologica. Ci sono senza dubbi stati altri fattori. Nel gene britannico, accanto al nazionalismo, il vettore pragmatico è decisivo. L’umiliazione di May nelle elezioni di giugno, la pressione dei settori economici (in particolare la city) per ciò che può essere perso e la fermezza dell’Europa che vuole restare ancora unita sono stati decisivi. Ma le Irlande che non vogliono un muro hanno contato molto.

La campagna elettorale catalana, al contrario, è iniziata con mura altissime. I due blocchi sono alla pari nei sondaggi e, salvo sorprese, sarà difficile trovare un accordo per formare un governo. La strada senza uscita in cui si è cacciato l’indipendentismo, dopo la dichiarazione di secessione, non è servito a fargli riconsiderare le sue posizioni. Né il clamoroso rifiuto dell’Unione europea, né le disastrose conseguenze economiche, né il clima sociale irrespirabile sono serviti a per ritornare sui propri passi e fare autocritica. Il discorso vittimista continua a tenere stretti i ranghi. Forse solo una vittoria nei voti e nei seggi di Ciudadanos (partito costituzionalista) può aprire la mente a “posticipare” l’indipendenza e far tornare a posizioni di catalanismo realistico. Ma nulla è automatico.

Se qualcosa si muove, ciò avviene nel blocco costituzionale. I socialisti propongono una trasversalità che consenta di ritornare agli assi politici sinistra-destra e di superare l’asse indipendenza-unità della Spagna (sarebbe aria fresca). E nel governo ci sono segnali che fanno pensare si stia pensando di fare riforme (fiscali, istituzionali) per dar vita a un catalanismo asimmetrico. Ma nel blocco costituzionalista molti continuano a non considerare il dato di disaffezione che riguarda metà della popolazione catalana. Continuano a prescrivere solo legge e ordine. Si va avanti a ripetere un campionario di verità politiche e pre-politiche che hanno smesso di essere tali perché non tengono conto delle circostanze.

In certi momenti si ha l’impressione che in Catalogna non ci sia alcuna ferita, come quella irlandese, in grado di guarire e far scoppiare la bolla ideologica. Ma l’infortunio c’è. Che altro dolore è necessario per realizzare che la Catalogna è fratturata a metà?

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