Quell’Africa (controcorrente) pro-mercato unico
Con la “dichiarazione di Kigali” 44 Paesi africani hanno deciso di unirsi in un’area di libero scambio. E’ una chiamata anche per la Ue, contro i nuovi venti protezionisti. GIANNI CREDIT

Più di sessant’anni fa sei paesi europei decisero di dar vita a un’area di libero scambio con il fine di per ricostruire e reinventare il nucleo del Vecchio Continente, distrutto dalle guerre e bisognoso di una nuova identità agli albori della globalizzazione.
Poco prima di Pasqua 44 Paesi africani su 55 hanno hanno siglato l’accordo AfCFTA, integrando tre precedenti cantieri regionali di abbattimento dei muri doganali. Sono trascorsi 58 anni dalla prima indipendenza post-coloniale: quella della Nigeria, oggi una delle locomotive del Pil africano. Lagos è stata peraltro l’unica big a rinviare l’adesione ad AfCFTA, scontando ancora un’instabilità interna cui non è estranea la pressione del fondamentalismo islamico. Ma dall’Egitto al Sudafrica, dall’Angola al Kenya, dal Congo all’Algeria, dal Mozambico ai più poveri paesi subsahariani, quasi tutti – anche il tormentato Sudan – hanno voluto apporre la loro firma alla “dichiarazione di Kigali”.
Il passo è controcorrente, quando sul pianeta spirano nuovi venti protezionistici. Ma l’Unione africana – un variegato mosaico etnie nazionali, esperienze storico-istituzionali e leadership personali – ha preso atto che non potrà mai aspirare ad alcun futuro identitario un continente in cui meno del 20% degli scambi commerciali si realizza all’interno del proprio perimetro (la Ue è a quota 70%, il Nafta al 55%, l’Asia al 45%) . Non stupisce che l’AfCFTA si sia dato un primo obiettivo semplice e concreto: è aumentare del 50% entro tre anni il volume del commercio interno alla free Africa. Naturalmente l’attesa è che si tratti di “nuovo Pil”: nella lista dei primi 40 paesi che contribuiscono al Pil globale, compaiono solo Nigeria, Egitto e Sudafrica (gli ultimi)
A differenza degli europei del ventesimo secolo – che si conoscevano già da millenni – gli africani del ventunesimo si conoscono ancora poco e comunicano pochissimo attraverso la domanda e l’offerta dirette e reciproche di beni, servizi, competenze e professionalità, ormai anche di risparmi e capitali. Il “mercato unico” è nei fatti un cammino ambizioso perché inesplorato: punta a costruire un soggetto nuovo nel sistema geopolitico utilizzando come collante anzitutto gli immensi giacimenti di materie prime (anzitutto lo stesso territorio). Ma non solo: l’accordo vuole avviare una fase di lungo apprendimento condiviso che va oltre la crescita della produzione e del consumo infra-Africa. I muri da abbattere – a beneficio di 1,4 miliardi di africani – oggi restano le le interlocuzioni commerciali ancora rigide nel post-colonialismo o con quella selvagge del neo-colonialismo cinese.
Non sarà affatto facile, ma è una strada obbligata: gli africani possono diventare tali – acquisendo opportunità e libertà soltanto iniziando ad attivare fra di loro i circuiti dell’economia di mercato (investimento nell’imprenditorialità, occupazione, intermediazione bancaria, valorizzazione interna ed esterna del “Made in Africa”). Nel frattempo l’Europa – forse nel momento di più forte crisi dalla sua fondazione – farà bene a non perdere di vista l’infanzia dell’AfCFTA. Aiutandola può sicuramente aiutare anche la Ue a superare le emergenze portate verso nord dalle ondate migratorie.
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