Un fascino, prima di tutto

- Giuseppe Frangi

In Sicilia non si dice “andare a messa” ma “vedere la messa”. Un modo di dire che mette al primo posto Cristo non come simbolo ma come presenza reale

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Duomo di Monreale (1172-1267), veduta dell'abside (Pixabay)

I modi di dire spesso sono rivelatori di sostanza. In Sicilia, come ha spiegato durante un incontro al recente Meeting il vescovo di Monreale Michele Pennisi, non si dice “andare a messa” ma “vedere la messa”. Si potrebbe giustamente pensare che è un modo di dire su misura della cattedrale di Monreale, data la meravigliosa fantasmagoria di mosaici che fasciano tutte le superfici, che splendono con i loro ori, e che inevitabilmente attirano lo sguardo dei fedeli. Anzi, quasi lo risucchiano con quel mix di bellezza e di suggestioni narrative.

In realtà “vedere la messa” è un modo di dire molto diffuso nel linguaggio comune in Sicilia e che non dipende quindi dal luogo in cui si assiste al rito.

Ovviamente è un modo di dire troppo bello perché non ci si rifletta un po’ sopra. Ce lo possiamo spiegare pensando ai tempi antichi, quando i nostri antenati assistevano alla messa, in gran parte dei casi senza poter sentire quel che si diceva nello spazio spesso immenso delle chiese. Quindi è facile immaginare come per quei fedeli l’aspetto visivo della liturgia dovesse avere un peso predominante.

Se si volesse dire una banalità si potrebbe sottolineare che oggi accade il contrario, in quanto i mezzi tecnici ci permettono di ascoltare, ma purtroppo nelle nostre messe, per troppa sciatteria, c’è ben poco da vedere…

Tuttavia quella piccola rivelazione del vescovo di Monreale non può tradursi solo in una reprimenda dei nostri tempi e delle nostre povere chiese: sarebbe riduttivo e anche un po’ frustrante. L’idea che la messa sia un “vedere” suggerisce spunti molto profondi. Non ci ricorda solo il fatto che la liturgia ha una sua bellezza, come pure il contesto in cui in tanti casi si svolge: basti pensare all’esperienza di “vedere” una messa a Sant’Ambrogio a Milano o Santa Maria Maggiore a Roma (solo per fare due esempi che rendono l’idea, ma se ne potrebbero fare centinaia e centinaia…). L’occhio è continuamente catturato dal fascino dell’insieme come anche dei singoli dettagli: tutte cose che ci portano dentro la bellezza di quel che che avviene sull’altare.

Ma il “vedere” suggerisce anche la concretezza del rendersi presente di Gesù non come simbolo ma come realtà. Il vedere quindi è un “vederlo”, nel mistero dell’ostia che si fa carne e del vino che si fa sangue. Quel modo di dire ci riporta quindi in modo genialmente semplice alla natura di quello a cui ogni volta si assiste, “andando” o “prendendo” messa, come di solito definiamo il gesto. È un vedere che se non intercetta più una bellezza della ritualità  o dei contesti, incrocia però sempre la possibile bellezza di donne e uomini, che pur nella fatica dei tempi, aderiscono e seguono Gesù. E che sono nella loro (e nostra) povertà riflessi di quella presenza.



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