La battaglia per i diritti continua su più fronti. In Occidente sono ben noti il caso Naval’nyj, cioè il recente avvelenamento del politico all’opposizione di Putin, così come la massiccia resistenza in atto da due mesi in Bielorussia, in seguito ai brogli elettorali che hanno riportato al potere Lukašenko. Probabilmente meno conosciuti sono i moti di protesta che proseguono da quasi tre mesi a Chabarovsk, in Estremo Oriente, contro l’arresto del governatore Sergej Furgal, accusato di essere il mandante di omicidi che risalgono a quasi vent’anni fa: in realtà, la gente è convinta che l’unica colpa di Furgal sia quella di aver vinto le elezioni battendo il candidato del Cremlino.
Ma ci sono altri fatti che suscitano interrogativi inquietanti. Venerdì nel centro di Nižnij Novgorod, la terza città più importante della Russia Europea, vicino al commissariato di polizia si è data fuoco una giornalista, Irina Slavina, da tempo vittima di vessazioni a motivo della sua appartenenza al movimento “Russia aperta” di Chodorkovskij, un altro “concorrente” di Putin finito in lager dal 2003 al 2013 e ora in esilio a Londra. La Slavina ha lasciato scritto: “Della mia morte chiedo sia considerata colpevole la Federazione Russa”. In varie città russe sono iniziate manifestazioni di protesta in sua memoria.
Dopo alterne vicende che si protraggono da ormai quattro anni, il 29 settembre si è concluso con una condanna a 13 anni di lager il caso Dmitriev, il processo contro uno storico accusato di un delitto particolarmente odioso, “abusi su minorenni”. Anche qui, il movimento di opinione pubblica creatosi, gli interventi in favore dell’imputato di personaggi come Natalija Solženicyna, le scrittrici Ljudmila Ulickaja e Ol’ga Sedakova, e molti altri, lasciano intendere che le cose non sono così semplici.
Jurij Dmitriev è uno storico formatosi sul campo, da quando nel 1988 si è messo alla ricerca dei luoghi di fucilazione di massa e delle fosse comuni staliniane in Carelia, nel nord-ovest della Russia, dove, appunto, erano ubicati molti lager. Dopo 8 anni di ricerche negli archivi e nei boschi della regione, nel 1997 in località Sandarmoch è riuscito a rinvenire quasi 10mila corpi con il teschio trapassato da una pallottola. A più della metà di queste vittime, con un paziente lavoro d’archivio, Dmitriev è riuscito a dare un nome. Nel tempo Sandarmoch è divenuto una sorta di “santuario”, dove cattolici, ortodossi, armeni hanno eretto altari e cappelle, e centinaia di persone hanno appeso agli alberi foto e dediche ai parenti lì fucilati.
Negli ultimi anni però il vento è cambiato, e parlare o scrivere dei crimini dello stalinismo è diventato un atto riprovevole, una dimostrazione di antipatriottismo. Così, nel luglio 2016 è uscita una nuova versione (mai documentata) sulle fosse comuni di Sandarmoch, dove nel corso della guerra sarebbero stati seppelliti soldati sovietici fucilati dai finlandesi, e in dicembre Dmitriev è stato arrestato: nel corso di una perquisizione la polizia ha trovato nel suo computer delle foto “pedopornografiche” della figlia adottiva, che lo storico ha più volte dimostrato di aver scattato su richiesta dei medici, per monitorare alcuni gravi problemi di salute.
È iniziato così un interminabile iter giudiziario, mentre Dmitriev è rimasto ininterrottamente in carcere: il 5 aprile 2018 la Corte lo ha assolto dall’accusa, ma dopo appena due mesi una “nuova testimonianza” ha fatto riaprire il caso, rinnovare l’arresto e istruire un nuovo processo, conclusosi il 22 luglio scorso con una condanna a 3 anni e mezzo (praticamente già scontati durante la carcerazione preventiva), mentre l’accusa aveva chiesto 15 anni. Ora, nuovo colpo di scena: la Corte suprema della Carelia ha modificato la condanna precedente riaprendo il caso e condannando Dmitriev a 13 anni. La sua è stata definita “una condanna a morte della persona e della verità storica” una “nuova fucilazione” nel cuore stesso della memoria del Paese, come ha affermato una deputata della Carelia, Emilija Slabunova; il grave sospetto è che i giudici siano stati semplicemente gli esecutori della vendetta dei servizi segreti contro l’“eccessivo attivismo” di Dmitriev.
Quel che resta, all’indomani di una sciagura come la morte di Irina Slavina o di una condanna come quella inflitta a Jurij Dmitriev, non è solo l’amarezza di un vuoto incolmabile o di un’ingiustizia a cui non si vede come porre rimedio. Resta anche la consapevolezza di aver agito secondo coscienza, come ha detto Dmitriev nell’ultima parola al processo: “Non so se per fortuna o sfortuna, il mio cammino, il mio compito è di strappare dal nulla le persone scomparse per colpa del nostro stesso Stato, accusate ingiustamente, fucilate, seppellite nei boschi come bestie randagie. Non ci sono tumuli o altri segni che indichino che in quel luogo sono seppellite delle persone. Il Signore forse mi ha dato questa croce, ma mi ha dato anche questa capacità, di riuscire a scovare, a volte, i luoghi dove sono avvenute tragedie di massa. Li ricollego ai nomi e cerco di creare in quei posti dei luoghi di memoria, perché è la memoria che rende l’uomo uomo”.
E resta anche il sempre più vasto movimento di opinione pubblica, fatto di lettere aperte e appelli, ma anche semplicemente del cambiamento di mentalità che ciascuno di questi fatti contribuisce a produrre. Durante i lunghi mesi delle udienze presso il tribunale di Petrozavodsk (capitale della Carelia, a oltre mille km da Mosca) centinaia di persone hanno passato nottate in treno, perso giornate di lavoro semplicemente per presenziare, per accogliere con un applauso e un sorriso l’arrivo in aula dell’imputato. “La sera della condanna di Jurij – scrive da Petrozavodsk Svetlana, un’amica moscovita che ha assistito al processo – era stridente il contrasto tra il rumore della città, la musica per strada, i passanti ben vestiti, la gente seduta al ristorante, e quello che era appena successo nell’isolato a fianco, 13 anni per un crimine inesistente. Mi veniva voglia di fermare la gente per strada, di chiedere ‘Ma lo sa che cos’è successo?’, di piangere, di inveire, finché un amico mi ha detto: ‘Non sprechiamo sentimenti ed energie per loro. Ne abbiamo ancora bisogno. Adesso dobbiamo calmarci e far funzionare la testa’”. E Svetlana conclude: “‘Loro’ hanno dalla loro parte la menzogna e propagandisti esperti nel mentire, la forza amministrativa, i meccanismi repressivi, dei ‘sudditi’ corrotti dalla menzogna, disperatamente avidi di qualunque sporco scandalo. Ma noi dalla nostra abbiamo i fatti dell’innocenza di Jurij Dmitriev, confermati da perizie e testimonianze, la fedeltà, la fermezza – forze non materiali, ma ben tangibili. E poi abbiamo questo ‘noi’, fatto delle persone più diverse disposte ad andare alle udienze, ad aiutare, sostenere, pregare, simpatizzare, pensare. Infine, abbiamo la speranza, e questo non è poco. Continueremo a combattere”.