Whirlpool: affidiamola a chi ci crede

Il caso Whirlpool, la cancellazione di una intera fabbrica che dà da vivere a 430 famiglie, è il compendio degli errori di una intera classe politica. A cominciare da Di Maio

Quando Guido Borghi inaugurò il nuovo stabilimento in via Argine a Napoli della sua Ignis Sud eravamo nel 1956, agli inizi del boom economico. Grazie ai soldi della Cassa per il Mezzogiorno, l’operaio che aveva creato dal nulla una delle più importanti imprese tecnologiche dell’epoca, dichiarò di credere nella possibilità di investire al Sud e nelle capacità dei lavoratori meridionali. Per oltre 70 anni quello stabilimento ha prodotto lavatrici di alta qualità e contribuito al successo di grandi marchi come fu appunto Ignis. Poi produsse per l’Indesit e da circa un decennio per la Whirlpool.



Gli oltre 1.200 operai degli anni 60 si sono ridotti di numero, fino ai 430 di oggi. Segno del ruolo sempre più rilevante avuto dall’automazione e dalla robotica nelle linee di produzione.

Non si sa bene per quale motivo, ma la classe operaia di quella fabbrica è sempre stata su posizioni estremiste, molto combattive, apertamente ostili sia nei confronti dei partiti tradizionali della sinistra che in totale e aperto dissenso verso i vertici sindacali, Fiom in testa. Negli anni ’68-69 la fabbrica – spesso occupata – era addirittura il presidio di una formazione politica di estrema sinistra che dava parecchio filo da torcere al Pci e alla Cgil. Leader indiscusso era un giovane impiegato, tal Gustavo Hermann, espulso dal Pci per le sue posizioni filo-maoste.



Questa storia spiega molto della combattività degli odierni eredi di quella classe operaia fatta di indomabili comunisti eretici.

Sono sospettosi verso il sindacato, e mal sopportano Marco Bentivogli, dirigente riformista della Cisl. È invece fortissimo – almeno fino a qualche settimana fa – il legame con il Movimento 5 Stelle e quel suo giovane leader, catapultato ai vertici del governo e alla guida proprio del ministero a cui è toccato risolvere il problema. Ma spiega anche la prudenza con cui sindacato e Pd hanno gestito sin dall’inizio la vicenda.

La “vicenda Whirlpool”, chiamiamola così, raccoglie in sé il compendio di tutti gli errori compiuti in questi anni dalla classe dirigente rispetto alla politica industriale del Paese.



Se rileggiamo l’accordo sottoscritto tra azienda, sindacato e governo (ministro Di Maio) il 26 ottobre 2018, il futuro dell’impianto napoletano sembrava addirittura radioso. “Il sito di Napoli conferma la sua missione produttiva di lavatrici a carica frontale di alta gamma”, recitava il documento. E si annunciavano addirittura nuovi investimenti per circa 17 milioni nel triennio 2019-21.

Cosa sia successo dopo appena 9 mesi nessuno è riuscito ancora a stabilirlo con precisione. L’azienda parla di congiuntura di mercato negativa. Ma rimane difficile credere che un’azienda globale di quelle dimensioni possa sbagliare così clamorosamente le previsioni. Nè si può pensare che in così poco tempo siano cambiati i gusti e la propensione all’acquisto dei consumatori di “alta gamma”, come prometteva l’accordo.

La verità è che è così lontano da Napoli il reale centro decisionale che è difficile solo comunicare con esso. Del resto l’unica cosa che si sa è che ad un certo punto è apparsa una x su una slide di un “business plan”, che ha cancellato l’intera fabbrica, con tutte le 430 famiglie che ci campavano. È quindi davvero difficile dare un volto e un nome al responsabile di questa decisione.

Infatti i lavoratori se la stanno prendendo soprattutto con il governo, e in particolare con il comportamento avuto dal ministro Di Maio durante la sua permanenza al ministero.

Come qualcuno ricorderà, egli ha prima nascosto per un paio di mesi la comunicazione di chiusura dell’azienda, rendendola pubblica solo dopo il voto europeo, poi ha minacciato ritorsioni nei confronti della Whirlpool che non è stato in grado di mettere in pratica, infine ha annunciato roboante che grazie a lui “lo stabilimento non avrebbe più chiuso”, dichiarazione che oggi appare una sciagurata e iettatoria maledizione.

Comunque nessuno ha un’idea precisa di cosa fare. Intanto perché – come in altri settori vitali dell’industria del nostro paese – le acquisizioni fatte dalle grandi multinazionali hanno avuto come unico risultato l’eliminazione dal mercato di potenziali concorrenti. Poiché non è da tutti poter andar in giro a vendere lavatrici o frigoriferi, bisogna prendere atto che non esistono più potenziali acquirenti disposti a prendere l’impianto, anche a zero euro.

Non è facile neanche la riconversione produttiva. Occorre avere un’idea, e non è semplice trovare investitori seri e capaci. Anzi, bisogna dire che spesso si sono fatti clamorosi errori affidandosi a imprenditori con progetti improbabili e senza soldi sufficienti (come dimostrano i casi di Termini Imerese e di Mercatone Uno).

Infine rimane la carta dell’intervento pubblico. Se ne parla per l’Ilva, per Alitalia, e per altri casi simili. Ma l’idea di ricostituire una nuova Iri non può ridursi semplicemente a mettere dei soldi pubblici in aziende decotte, come nel caso di Alitalia. L’intervento pubblico non è un tabù, ma richiede l’esistenza di un management competente e affidabile, in grado di portare avanti progetti industriali seri. In linea di massima, se per la casa madre della Whirlpool uno stabilimento va chiuso perché guadagna poco, è assai probabile che per un investitore pubblico una redditività anche molto bassa possa essere accettata, se questo consente di salvare posti di lavoro, l’indotto circostante e il reddito di un intero territorio.

Quello che possiamo legittimamente chiederci è se sia possibile buttare a mare un impianto industriale di primo ordine e competenze professionali cosi difficili da trovare sul mercato proprio in una fase di trasformazione dell’economia, dove prendono corpo tanto progetti nuovi nella direzione della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente. Possibile che non ci siano progetti nuovi da sviluppare? Il punto è che non abbiamo più manager “a vocazione pubblica”, come c’erano una volta. Manager che per scelta, anche etica, non gestiscono un’azienda puntando solo ai profitti ma dando priorità a creare impresa e lavoro.

Eppure abbiamo migliaia di manager di prim’ordine ormai fuori dal mercato (pensionati, ma non solo), a cui forse potrebbe interessare dedicare il proprio tempo e la propria esperienza per obiettivi “di interesse pubblico”. Dei “civil servant”, per dirla con una definizione in voga nei paesi anglosassoni. Insomma, manager a cui chiedere di combattere insieme qualche battaglia, nell’interesse pubblico, dei cittadini più deboli, dei territori a cui abbiamo sempre riservato solo sacrifici.

Pensare che ciò sia possibile non è peccato.


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