Quando la comunità diventa prigione

- Fernando De Haro

Sembra esserci grande voglia di comunità nel mondo, anche come risposta alle sfide della realtà. Ma occorre prima che ci sia un io

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Un dettaglio della copertina del videogioco "It takes two"

La scorsa settimana si è tenuto a Los Angeles il gala dei The Game Awards, la grande notte mondiale dei videogiochi che da anni ha più audience della notte degli Oscar. In quasi cento milioni hanno seguito la consegna dei premi che identificano le migliori creazioni dell’intrattenimento digitale. In questa tornata il videogioco vincitore è stato It’s takes two (Ce ne vogliono due).

Nei videogiochi, come nelle serie televisive, troviamo le storie che modellano il presente e per questo lascia sorpresi che abbia vinto un gioco come It’s takes two. La sfida consiste, infati, nel superare una serie di prove per far sì che una coppia che sta per divorziare torni a innamorarsi. Sorprende che in un’epoca nella quale nessun vincolo è stabile si proponga come obiettivo di recuperare un matrimonio. I giocatori devono salvare una famiglia e lo devono fare insieme ad altri, il gioco è cooperativo. Nel mezzo di una lunga pandemia sembra che si rivendichi il valore del vivere in comunità, la forza di un’antropologia positiva che superi la negatività sulla condizione umana condivisa dal liberalismo e dallo statalismo. Se esagerassimo fino al ridicolo quanto successo la scorsa settimana a Los Angeles, potremmo dire che nel mondo dei videogiochi  trionfa il “comunitarismo”.

Il comunitarismo, il movimento che prese forza negli Stati Uniti degli anni ’80, a differenza del liberalismo classico ha sempre sottolineato il valore dei legami ricevuti rispetto a quelli contrattuali. Non è mai stato un movimento omogeneo, ma gli autori che sono considerati appartenenti a questa tendenza concordano nel sottolineare l’importanza delle relazioni comunitarie e delle entità sociali che ne derivano. Sostengono che Stato e mercato sono stati sopravvalutati. Le comunità sociali si sono indebolite, ma continuano a esistere e rafforzano la convivenza comune, che non può fondarsi solo su regole formali. Insieme al valore della comunità e dei “desideri socializzanti”, questi autori insistono sulla necessità di un “rinforzo morale” affinché la democrazia non venga indebolita.

Il sociologo Amitai Etzioni è uno dei membri più popolari di questa corrente e qualche mese fa è tornato a presentarsi come un  “comunitarista” in un articolo sul Covid. Etzioni sostiene che i Paesi meno comunitari, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, sono quelli che hanno dato la peggiore risposta alla pandemia. Molti dei loro cittadini, dominati da sentimenti libertari, non hanno saputo farsi carico degli altri e del bene comune. Etzioni indica come un buon esempio il Giappone, dove il Governo ha giocato un ruolo molto secondario e c’è stata una grande responsabilità sociale. Il sociologo riconosce che il Giappone è uno dei Paesi più individualisti della sua area, ma il radicamento di valori come la cortesia o il senso del dovere sono stati determinanti. Sarebbe del tutto ingiusto giudicare sulla base di un solo articolo, ma se alla fine parte del comunitarismo si limita a un richiamo etico, difficilmente può essere di grande aiuto. Siamo in un mondo nel quale da tempo non solo si sono diluiti i fondamenti di quasi tutti i sistemi morali, ma è il soggetto stesso che deve fare il bene ed evitare il male a offuscarsi.

Neppure sembra sufficiente, all’inizio di questo decennio, una generica invocazione alla comunità, soprattutto perché negli ultimi anni abbiamo visto lo sviluppo di comunità con il proposito di giungere a ciò che il sociologo spagnolo Manuel Castell chiamava “identità di resistenza”, comunità che, di fronte alla globalizzazione e alla sensazione di essere indifesi, cercano un significato in un atteggiamento difensivo e di rifugio. Sono comunità che credono di trovare un senso nello stare insieme dei loro membri, opponendosi a un ambiente diventato loro ostile.

Abbiamo visto come siano cresciute negli ultimi tempi comunità di tutti i tipi che, per insicurezza, pretendono di raggiungere il paradiso mediante la “self-segregation“, l’autosegregazione, un termine abituale negli Stati Uniti per spiegare il comportamento di alcune comunità etniche. Può essere, però, esteso a tutti quei tipi di comunità basate, tra altre cose, su un “bolla filtro”. L’espressione filter bubble è stata utilizzata da Eli Pariser per descrivere l’isolamento e la preselezione di informazioni con una certa tendenza.

La parola comunità, purtroppo, viene sempre più utilizzata per definire identità di resistenza, caratterizzate dall’illusione di un comfort in un mondo troppo aggressivo e dalla dimenticanza del protagonismo della persona. Come recentemente ha detto González Sainz, “quando la nostra società fa di tutto per la parola ‘identità’, che è legata a ideologia e idolatria, si sbaglia di grosso. La parola forte è ‘relazione’, compresa quella con con se stessi”. Un buon comunitarista darebbe ragione allo scrittore spagnolo. La comunità è una chimera e una prigione se non è fonte di relazioni con il mondo, se non si fonda su un io in relazione con se stesso. Certamente ce ne vogliono due (It’s takes two), ma perché ci siano due occorre che ci sia uno.

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