Geppetto e Pinocchio, la doppia vittoria di Schwazer

- Marco Pozza

Dopo essere stato umiliato, Alex Schwazer, accompagnato da Sandro Donati, non ha gettato la spugna e ha vinto in tribunale

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Alex Schwazer (Lapresse)

Alex Schwazer ha sempre parlato poco. Non avesse fatto il marciatore, sarebbe stato falegname: è l’indole dei falegnami tacere, scolpire. Falegname come Geppetto Sandro (Donati, ndr), l’uomo che scrutando di sbieco il Pinocchio-Alex di Londra 2012 non si è tirato indietro: “Se accetti, diventerai un bravo bambino”. La sfida era al limite: da burattino manovrato dal doping, a fuoriclasse mondiale. Non è stato Donati a cercare Alex, è accaduto il contrario: lo insegna il Vangelo che è la volontà del figliolo prodigo (“Non ce la faccio più a mentirmi!”) a riaccendere l’abbraccio del padre. 

Nella loro tana di solitudine – tra i canneti di periferia della Capitale come lungo l’Isarco del Sud-Tirol – non accettarono intromissioni nella loro tempesta interiore: testa bassa e marciare. Loro due, con quella rabbia che sentiva l’urgenza di raccontarsi al mondo. “Hanno vinto, almeno?” chiedono al bar. Il problema è proprio questo: che non hanno vinto. Perché hanno stravinto. Versandosi un anticipo di fiducia reciproca – ci voleva fegato a Sandro Donati nel prendersi Pinocchio; ci voleva coraggio ad Alex per accasarsi proprio a casa di quel Geppetto che ha fatto della lotta al doping la sua vocazione – sono saliti ancora più in alto di dov’erano prima. “Senza doping, signori, si potrà andare ancora più forte”. Detto, fatto: dimostrato. Cronometro alla mano, rivali battuti.

Il campione è tantissimo: fa cose che riescono a pochi. Il fuoriclasse è oltre: riesce a fare cose che nessuno fa. Schwazer appartiene ai secondi. Ecco la trappola: l’angoscia del pipistrello è che qualcuno gli accenda la luce. Ecco la manipolazione delle provette, la bastardaggine dell’invidia, l’escremento degli incapaci: “Tendiamogli un tranello, altrimenti siam battuti!” Benvenuti all’inferno! Non solo l’accusa, ma anche l’umiliazione di farlo andare a Rio (A/R) solo per la gioia di vederlo massacrato, umiliato, disintegrato nella sua dignità d’uomo. Poi il ritorno: lento ma ritmato, silenzioso ma non muto, piegato ma non rotto. Non è avvezzo ai tribunali, Alex: il suo unico tribunale è la pista, l’unica legge che gli è famigliare è l’allenamento. «Son innocente, stavolta!» grida. 

Giura, s’inginocchia e spergiura. Figurarsi se qualcuno gli crede: basta uno sbaglio a rendere l’uomo inetto alla verità in eterno? E fu così che l’aggettivo dopato diventò sostantivo: il dopato. La menzogna, infangando, gozzoviglia come un maiale a rotolarsi nella fanghiglia. Viene colpito il figlio adottivo, per colpire (seconda volta) il suo padre putativo: “Maledetto sia in eterno il nome di Donati!”. Arrendersi era la cosa più semplice: l’ambiente riaccetterà sempre i bugiardi, basterà pagare con l’omertà. Pinocchio e Geppetto non ci stanno: “Vediamoci in tribunale!” Altra marcia, altro traguardo, tutt’altri allenamenti: «La vera molla era dimostrare la mia innocenza (…) ero allenato per lo sforzo, mentre nei tribunali sono un pesce fuor d’acqua» ha detto a La Gazzetta dello Sport. Ieri, dopo quasi un lustro, il giusto verdetto: “Non può essere processato per il doping perché non si è mai dopato”. Basta?

L’altra faccia della medaglia, però, è da brividi: le accuse spietate contro la Wada e la Iaaf parlano di «falso ideologico, frode processuale, diffamazione». Il medico pagato per curare è giunto all’obitorio: morto. Pagina nero-pece per chi dovrebbe piantonare il doping: «È il mio trionfo più grande, più di Pechino» ha detto, educatamente. Per vincere, però, era necessario scommettere sul futuro: era lì che si nascondeva la verità. È qui, adesso, che giace la domanda che è di tutto il popolo sportivo: come faranno gli atleti, già stremati dall’allenamento, a fidarsi di un’istituzione che ha mostrato, con Alex, di andare a letto con l’amante di turno? Per la medaglia non basterà allenarsi, esser puliti. Nemmeno, se si ha sbagliato, ritrovare la voglia di ritornare in pista. Occorrerà contare che, per tutto questo, ci sarà sempre qualcuno che, frustrato per il poco talento, tenterà l’arte dello sgambetto.

Chapeau al giudice Pelino: non è da tutti! Avesse la stessa onestà intellettuale lo sport, Schwazer sarebbe (nostro) portabandiera a Tokyo.

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