Alla fine dello scorso anno Draghi ha presentato un importante rapporto al G30. Si tratta ora di vederne l'attuazione pratica nel nostro Paese
Quella delle “imprese-zombie” è la seconda categorizzazione politico-economica rilanciata da Mario Draghi durante il suo “sabbatico” di economista fra la presidenza Bce e l’incarico di Premier italiano. Quattro mesi dopo aver distinto fra “debito buono e cattivo” in chiave Recovery Ue – all’ultimo Meeting di Rimini – Draghi ha presentato personalmente un rapporto sull’economia del dopo-Covid al G30, esclusivo think tank di banchieri centrali e Nobel per l’economia. È stato allora che Draghi ha dato enfasi a una formula di efficacia comunicativa pari al realismo analitico: le grandi istituzioni nazionali e internazionali di governo dell’economia devono evitare la formazione di “masse di imprese-zombie, che sopravviverebbero a stento, imponendo un’inefficiente allocazione delle risorse stanziate per la ricostruzione”. È un concetto che il neo-Premier ha ripreso chiedendo la fiducia al Parlamento italiano: “Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce. Il Governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche”. Draghi si propone come grande liquidatore dell’Azienda-Italia, come inflessibile tagliatore di carrozzoni o di imprese “troppo piccole per sopravvivere”?
Basta leggere fin dal titolo il rapporto Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid: Designing Public Policy Interventions per capire che l’ex Presidente della Bce non guarda affatto all’Italia – all’Europa – come a un lazzaretto di imprese moribonde. Il suo interesse programmatico va invece a tutte le imprese che possono essere “ristrutturate” al fine di “rivivere”. Affermato il principio della selettività delle politiche industriali d’emergenza, esso opera dunque in funzione positiva: vanno scelte e sostenute le aziende che danno prospettive di redditività sostenibile sul mercato nella nuova fase di new normal. Il primo criterio-avvertenza del rapporto è in ogni caso che ogni politica pubblica deve includere un surplus di attenzione relativa per le imprese minori, che hanno un potere contrattuale minore verso governi e sistema finanziario rispetto ai grandi gruppi; e invece custodiscono spesso grandi potenziali occupazionali e d’innovazione,
Sul piano metodologico, il documento suggerisce anzitutto di favorire le ristrutturazioni sul mercato. Un’azienda può “rivivere” in molti modi: anzitutto con nuovi apporti di capitale da parte dei soci esistenti, che possono essere incentivati a farlo da opportune misure fiscali, soprattutto in un clima di fiducia stabilizzato sul piano sanitario. Certamente un mercato finanziario funzionante nel far circolare il risparmio privato e un sistema creditizio forte e attivo sono precondizioni fondamentali nel presente per rilanciare le imprese nel futuro. Analogamente, un’impresa può “rivivere” attraverso ridimensionamenti, processi di aggregazione interni o internazionali, ingressi di nuovi investitori. Ed è evidente che l’intera società nazionale deve generare nuove soft skills di flessibilità, su tutti i fronti: la probabilità di cambiare lavoro è in fondo più alta di quella di perderlo.
I Governi – fra le loro molte responsabilità – hanno certamente quella di intervenire nei casi di fallimento: e sempre quando una crisi aziendale abbia ripercussioni sociali. Ma quando Draghi ragiona nel rapporto sugli “stakeholder di oggi e di domani” (davanti a Camera e Senato ha parlato schiettamente di “noi, i nostri figli e i nostri nipoti”) è chiaro – ancora una volta – che per lui va massimizzato il “debito buono” in investimenti e minimizzato quello “cattivo” in sussidi. È palese che vuole minimizzare – anche se non ignorare – le imprese-zombie e vuole invece massimizzare quelle che produrranno il Pil italiano fra dieci o vent’anni: aiutando anche quelle che non ci sono ancora. Quelle che – nulla lo esclude – possono essere create anche da lavoratori usciti da imprese-zombie. O da giovani che – nell’immediato – hanno bisogno di sistemi educativi rafforzati e modernizzati.
Tutto perfetto nel paper del G30: ma in concreto? A meno di tre settimane dal giuramento del nuovo Governo è già possibile leggere in cronaca un importante caso-test: quello di Alitalia. Il Governo non chiude l’ex compagnia di bandiera: avrebbe senso in un Paese che vuol vivere di turismo 5.0 e sta organizzando le Olimpiadi del 2026? Al momento d’altronde non ha senso un’Alitalia con più di 45 aerei e di 4.500 dipendenti. E la “nuova Alitalia” deve cercare in fretta un senso stabile in una partnership auspicabilmente definitiva. La “vecchia Alitalia” era un’impresa-zombie. Alla nuova – cioè ai valori che ancora sono riconoscibili dentro l’impresa – il Governo vuole offrire chances realistiche: quelle che Alitalia merita. Poi toccherà all’Ilva e tutte le altre imprese italiane, pubbliche e private, che vorranno scegliere il loro futuro.
