Le resistenze che stanno accompagnando il parto della riforma della giustizia sono direttamente proporzionali alla carica innovativa profonda del provvedimento elaborato dal ministro Marta Cartabia e quindi approvato dall’esecutivo con mozione di fiducia personale del Premier Mario Draghi. Diversi settori della politica – non solo M5S – manifestano una diffidenza classica verso un passo ritenuto “tecnocratico” su un terreno di tradizionale confronto parlamentare.
Simmetricamente, le critiche di ambienti non marginali della magistratura malcelano l’insofferenza per la decisione del primo e del secondo potere dello Stato di intervenire sull’ordine giudiziario. Nei fatti, entrambi i fronti critici sembrano voler evitare un confronto vero con l’approccio di una riforma che forse non sarebbe scorretto chiamare “della legalità”. E che certamente né Draghi, né Cartabia hanno mai inteso né come blitz tecnocratico in Parlamento, né come “regolamento dei conti” con la magistratura.
La giustizia – come la sanità, mai come in questa fase – non è solo un principio culturale della civiltà democratica, ma è un servizio pubblico strategico per il funzionamento di un’economia e di una società che hanno scelto di svilupparsi in democrazia. Il Recovery fund è stato lanciato dall’Ue anche con la precisa finalità di “check-up” ai grandi servizi pubblici alla base delle democrazie europee. Il Pnrr formalizzato dal Governo Draghi e approvato dalla Commissione Ue ha riconosciuto che l’amministrazione della giustizia è oggi fonte di handicap competitivi del sistema-Italia. La richiesta di fondi per la ripresa è stata quindi motivata anche dall’impegno a colmare questi gap. Per accelerare la rigenerazione del Pil e quindi la normalizzazione dei parametri euro. Per orientare la grande direttrice della digitalizzazione a quel particolare settore della Pa che in Italia gestisce la legalità in monopolio.
E a proposito di monopoli: la pandemia ha innescato da subito un gigantesco ripensamento sui sistemi sanitari. Sta già funzionando come laboratorio di ricerca di equilibri più efficienti ed efficaci fra un reale “servizio universale gratuito” – imprescindibile in una democrazia autentica – e una sanità privata che non può mai essere del tutto tale, pur contribuendo in misura determinante alla ricerca medica e allo stato di salute di un Paese. La “legalità” di un Paese è una dimensione analoga: non può essere sottratta al governo democratico, né resa oggetto di pura dialettica politica o di difese corporative.
La legalità misurata nei tempi di processo si traduce in punti di Pil allargato a tutte le dimensioni tangibili e intangibili. Su questo terreno, in questa direzione si è mossa la riforma Draghi-Cartabia e non può affatto stupire che il Premier l’abbia idealmente posta all’inizio di una fase realizzativa del Pnrr che ora affronterà senza soluzione di continuità la rimozione di ogni ostacolo indebito e dannoso alla concorrenza: cioè alla libertà di mercato, naturalmente obbligatoriamente nella legalità.
Il monopolio assoluto della magistratura sull’amministrazione della giustizia – sulla produzione di legalità quotidiana in Italia – è efficiente ed efficace? Oppure necessita di un cambiamento? Chi si è ritrovato a governare un Paese come l’Italia – nel 2021 – non ha potuto non porsi questa domanda: rilanciata peraltro da anni dall’Ue. Non ha potuto questo Governo, non provvedere a prime risposte, allorché la Ue sta prendendo sul serio la recovery italiana. L’autonomia costituzionale dei magistrati non può essere messa in discussione. Le indebite rendite di posizione cementate negli anni a danno dell’Azienda-Italia possono e devono essere cambiate.
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