Uguaglianza per la pace 

- Giorgio Vittadini

Lo scorso weekend al New York Encounter c’è stato un interessante dibattito tra Fitoussi e Milanovic sulle disuguaglianze

Dollari 100 pixabay
(Pixabay)

“La stabilità e la pace si organizzano nelle istituzioni, ma si costruiscono nel contrasto quotidiano alle diseguaglianze, all’odio e all’ignoranza”. Lo ha detto il Premier Mario Draghi all’apertura dell’incontro “Mediterraneo frontiera di pace” che riunisce a Firenze vescovi e sindaci di più Stati, in corso in questi giorni fino a domenica.

Parlando dei Paesi che si affacciano sul “Mare Nostrum” e facendo riferimento in particolare ai giovani, Draghi ha sottolineato che tutti hanno la “legittima aspirazione di realizzare a pieno il proprio potenziale”. Il percorso che porta a questo obiettivo è l’investimento in istruzione, formazione e posti di lavoro.

Per capire l’enfasi che meriterebbero questi temi bisognerebbe avere chiaro qual è il contesto in cui questa legittima esigenza di realizzazione personale e sociale si colloca. O, in altre parole, qual è lo spettro che incombe sulle società contemporanee. Viene chiamata “disuguaglianza“, ma forse questo termine non rende davvero l’idea del pericolo che rappresenta. Anche qualora entrassimo nei dati o nelle implicazioni in termini di crollo dei redditi, di occupazione, di opportunità di ascensore sociale, di cure sanitarie o di servizi educativi. Potrebbe dare meglio l’idea, forse, la parola “disgregazione”: una perdita di “energia” di coesione all’interno delle famiglie, delle comunità, delle società e degli Stati. La crescita di disuguaglianza produce, a tutti gli effetti, un disfacimento del tessuto connettivo del vivere comune.

Se si guarda al complesso delle democrazie occidentali, la crescita della diseguaglianza è uno degli elementi più evidenti.

Lo scorso weekend ne hanno parlato al New York Encounter due tra gli economisti che più hanno studiato questo tema, il francese Jean Paul Fitoussi, docente all’istituto di studi politici di Parigi, e Branko Milanovic professore al Graduate Center della City University di New York.

A leggere l’ultimo dato Oxfam (il 50% del reddito mondiale è nelle mani di 42 persone), verrebbe da chiedersi – ha affermato Fitoussi – come non sia ancora accaduta una catastrofe. Oltre al fatto che nei Paesi europei, grazie a sistemi di protezione sociale, se ne sono sentiti meno gli effetti, secondo l’economista francese, va considerato il fatto che la disuguaglianza è cresciuta un po’ ovunque nel mondo e lo ha fatto in forme diverse: ineguaglianza della qualità della vita, del benessere soggettivo, nella salute, nell’educazione, nei divorzi, nel fine vita. In altre parole, come dire che è un fenomeno talmente endemico che ha creato una sorta di anticorpo (censura) nella collettività.

Perché siamo arrivati a questo punto? Perché abbiamo scelto di interpretare l'”homo oeconomicus” a discapito di quello sociale?

Abbiamo trattato la teoria neo-classica, che prevede la prevalenza del mercato, come fosse un’esigenza della modernità. E abbiamo trattato la teoria keynesiana, che prevede un equilibrio tra poteri, come fosse una teoria finanziaria, ha affermato Fitoussi.

Nella teoria neoclassica le persone non si curano degli altri e guardano solo al loro interesse. E quello che succede, accade attraverso il merito. Così nel pensiero liberista l’ineguaglianza è considerata una cosa buona perché offre l’incentivo ad agire. Mentre nei Paesi europei la disuguaglianza è giustificata nei casi di bassa performance economica, nei Paesi anglosassoni è giustificata ideologicamente.

Se la vita, i bisogni delle persone non meritano considerazione dagli altri, non c’è da stupirsi se la violenza cresce.

Dal punto di vista della disuguaglianza l’America è tornata indietro agli anni Trenta del secolo scorso. Il sogno americano per decine di milioni di poveri e migranti è svanito: la mobilità verticale dalle classi povere a quelle più ricche è sempre più difficile.

C’è una convinzione ancora troppo diffusa da sfatare: che crescita economica e lotta per l’uguaglianza si contrappongano. In realtà è ormai da tempo evidente – sostiene Milanovic – non solo che non sono in contraddizione, ma che si rinforzano reciprocamente. Oggi è chiaro che l’alta disuguaglianza è correlata con una bassa mobilità sociale.

Le ineguaglianze impediscono di partecipare alla vita sociale e contribuire alla produzione di ricchezza per l’intera società.

La riduzione dell’ineguaglianza non è solo buona per se stessa, ma ha anche altri effetti, come una crescita delle abilità sociali che incidono su tutta la società.

Milanovic sottolinea anche un altro aspetto fondamentale: è calato il valore che si attribuisce ai sistemi di protezione sociale, tipici soprattutto dei Paesi europei, ed è cresciuta l’ostilità verso le loro rappresentanze, ad esempio, sindacali, viste come un ostacolo alla crescita. Sappiamo quanto danno abbia fatto anche nel nostro Paese una demonizzazione acritica dei corpi intermedi e delle realtà sociali.

La conseguenza è l’indebolimento dei sistemi democratici.

Una “democrazia di mercato”, come l’ha definita Fitoussi, cerca di conciliare due principi in conflitto tra loro: quello della democrazia per cui ogni persona deve esprimere un voto e quello del mercato per cui ad ogni dollaro è associato un voto. Ha prevalso l’aspetto di mercato testimoniato dall’ineguaglianza nell’incidenza che le persone hanno nel pubblico dibattito, visto che il sistema mediatico appartiene ai più ricchi e i più poveri non sono rappresentati. Non c’è da stupirsi allora se cresce l’indifferenza verso la politica come dimostra il fatto che il 40% degli americani non ha votato nelle ultime elezioni e l’astensionismo cresce anche in tutti gli altri Paesi democratici.

La conclusione dei due autori è che la disuguaglianza non è più un problema solo di welfare: si cresce il più possibile e poi si cerca di ridistribuire la ricchezza. Uno sviluppo come quello liberista che contrappone sviluppo economico e lotta per l’uguaglianza ha effetti disastrosi per la stessa crescita. Le ineguaglianze impediscono a molti di contribuire alla produzione di ricchezza dell’intera società perché ne blocca la crescita delle abilità professionali e li emargina dalla vita sociale facendone dei vinti che faticano a sopravvivere.

Il commento è che è ora di superare il pensiero unico che domina nelle principali facoltà di economia che hanno abbandonato lo studio della storia economica e delle teorie economiche (Smith, Ricardo, Marx, Schumpeter, Keynes…) per presentare il pensiero neoclassico come una sorta di verità oggettiva al pari di teorie scientifiche chimiche o fisiche. Cosa può rappresentare un ritorno al pensiero keynesiano per l’idea di sviluppo? E che valore può avere il terzo pilastro di Rajan cioè l’introduzione nell’idea di sviluppo dei corpi intermedi e della sussidiarietà orizzontale? È una storia tutta da scrivere se non vogliamo  giungere al mondo di Blade Runner diviso tra il sottobosco dei poveri e le regge dei ricchi.

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