Da dove si riparte quando tutto è distrutto

Da dove si riparte quando tutto è distrutto? Da dove si ricomincia quando il peccato ha dilaniato tanto di quel bene faticosamente costruito?

Alla fine, tutto questo passerà. La guerra in Ucraina finirà, la crisi mediorientale si risolverà, le tensioni fra le grandi potenze troveranno un punto di caduta. Ci vorrà poco o tanto, ci saranno vincitori e vinti e, purtroppo, migliaia di vittime innocenti. Ma passerà. A quel punto la domanda più importante non sarà sul come posizionarsi rispetto ai nuovi equilibri, ma come ricostruire – come riparare – tutto quello che si è strappato. Nella notte della Grande Guerra, Edward Grey progettò la Società delle Nazioni, nella tragedia del secondo conflitto mondiale intellettuali di tutto il continente sognarono l’Unione Europea. Oggi ci troviamo di fronte ad una sfida analoga, ma forse più radicale.

Ad essere distrutte, infatti, non sono soltanto le case o le infrastrutture, le geometrie politiche o le alleanze: la distruzione che accompagna questo nuovo conflitto dai tratti globali è la distruzione dell’Io, di quel punto irriducibile della storia che è stato riempito di libertà per essere lasciato solo, che ha acquisito pieni poteri su di sé, ma è in balia di un sistema, di un’economia e di una politica, che non esita a calpestarlo per affermare continuamente il proprio potere.

Da dove si riparte quando tutto è distrutto? Da dove si ricomincia quando il peccato ha dilaniato tanto di quel bene faticosamente costruito? È una domanda che certamente deve essere posta alle nazioni, ma che va ben oltre. Riguarda i matrimoni, le amicizie, gli ambienti di lavoro, i condomini, le famiglie: come si fa a riparare la vita quando si è rotta a causa delle azioni che abbiamo compiuto?

Nel vangelo di Giovanni, Gesù risorto si presenta a Simon Pietro dopo che quest’ultimo lo aveva pubblicamente tradito nella notte dell’arresto e della condanna a morte. La loro è la storia di un’amicizia distrutta, rotta dalle azioni compiute dal discepolo che il Cristo stesso aveva messo a capo della sua chiesa. Il loro incontro è quindi rivelatore di un metodo, di una strada di riparazione, che può essere una proposta per tutti.

Tuttavia, il ragionamento resterebbe un po’ meccanico se si omettesse ciò che era già successo a Pietro proprio nel corso di quella notte terribile: aveva pianto. Si era pertanto accorto che quello che aveva rotto sarebbe restato rotto per sempre. Riparare non è aggiustare: la vita non si aggiusta, non torna mai come prima. Pretenderlo sarebbe ingenuo e violento. Il cammino della ricostruzione inizia proprio quando si comprende che ogni rottura è un lutto, che ogni fine è segno di quella fine che aspetta tutti e che si chiama morte.

Pietro sa che qualcosa è morto per sempre. Ma sa anche che quella morte ha paradossalmente aperto uno spazio nuovo. Tra ucraini e russi, tra israeliani e palestinesi, si aprirà uno spazio nuovo. Ed è in quello spazio nuovo che Gesù riparte. Lo fa con il suo stile, ponendo una domanda: chiede loro da mangiare. Le lacrime della consapevolezza lasciano così il posto ad un nuovo passaggio: quali domande sono rimaste sul tavolo? Che bisogni nuovi ci sono oggi? Certo, questo non avviene subito: perfino il Signore fa passare tre giorni di silenzio! Egli non ha fretta, ma quando torna, torna per ripartire da una domanda.

È incredibile come quella domanda porti ad una nuova consapevolezza: Pietro non lo chiama più maestro, non lo chiama più Cristo, lo chiama Signore. Dopo le lacrime, dopo il lungo silenzio, dopo la domanda, questi due vecchi amici si tornano a guardare e si danno un nome nuovo. Anche Gesù, infatti, lo chiama come non lo ha mai chiamato prima. Simone di Giovanni. Che è un nome difficilissimo e che non avrebbe senso stare a spiegare. Ma che dice che quello che si è rotto non c’è più e che però, al suo posto, ha fatto germogliare un’altra cosa. Gli equilibri di prima non ci saranno più, la vita di prima non ci sarà più, ma può sorgere un’altra cosa.

Questo, però, non è l’esito di un buonismo. Gesù, infatti, ricorda tutto e durante la cena costringe Pietro a farsi fino in fondo la domanda più grande della vita: che cosa ami, amico mio? A che cosa davvero tieni? All’origine di ogni rottura e di ogni guerra c’è questo: io ho avuto l’impressione che tu non tenessi più a me. E magari è stata più di un’impressione perché mi hai invaso, mi hai combattuto, mi hai aggredito o tradito. Adesso, in questo spazio nuovo in cui te e io siamo dentro una relazione completamente diversa da prima, io ti chiedo: sei tu disposto a tenere di nuovo a me?

Chiaramente non è possibile che l’altro lo faccia “come prima”, ma è possibile costruire una forma nuova, un nuovo modo di intendersi e di rapportarsi. Da notare come anche in questo caso ci vogliano almeno tre domande perché tutto questo emerga, domande che portano amarezza e sconforto in Pietro, che sono come la coda della rottura che ci è stata, ma che occorre affrontare per tornarsi a guardare in faccia. Cristo costringe Pietro a fare memoria del dolore che ha causato, dell’amore che ha negato e Pietro non si sottrae, lasciandosi cambiare da questa nuova consapevolezza che avanza e che si insinua in lui.

Il brano è ancora lungo ed è ricco di altre sfumature, ma solo una merita ancora attenzione: tutto questo lavoro della speranza, della ricostruzione e della pace è possibile solo grazie alla presenza di Cristo. Non sono le strategie umane che ridonano la vita, è un’altra Vita – la vita di Cristo – che permette in ogni storia il miracolo della Resurrezione. È dunque possibile riparare, è possibile ricominciare, a patto di lasciare tempo, di non voler rimettere in piedi quello che c’era prima, di entrare in contatto con tutto il dolore che c’è stato e che rimane sul tappeto. A patto di farsi perdonare da Cristo. Dovranno farlo gli ucraini con i russi, gli israeliani con i palestinesi. E viceversa. Ma in fondo dovremo farlo un sacco di volte tutti noi. Per tornare a costruire vita là dove abbiamo saputo produrre soltanto morte.

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