L’avventura di Giuseppe, sposo di Maria di Nazareth e padre putativo di Gesù, è incredibile. Cresciuto in un ambiente dove la fede coincideva con la sterminata fiducia nelle promesse di Dio, si ritrovò ad un certo punto ad avere un’età che i contemporanei definivano avanzata, ma senza alcuna promessa compiuta. Immerso in una grande solitudine, forse sopravvissuto ad un grande dolore, si domandava quando il Signore si sarebbe ricordato di lui. Per la società del tempo era un fallito, quasi un maledetto. Per la sua famiglia, molto più prosaicamente, era una vergogna.
Poi, per strade che la storia ha scelto di non condividere, arrivò Maria. Bella, figlia integerrima di persone perbene della Galilea, giovanissima. Giuseppe le si accostò con delicatezza e rispetto, con speranza e gratitudine infinita. I due si sposarono secondo il rito e la legge degli uomini. E lui, con gli occhi verso quel cielo che tappezzava le notti di un’età benedetta, sospirava, attendendo la propria sposa nella sua casa.
Ma l’idillio durò poco: qualcosa era accaduto a Nazareth, qualcosa che avrebbe per sempre macchiato il suo onore, ricoprendolo di ridicolo e di infamia.
Eppure, anche in questa circostanza, Giuseppe scelse di non trasformare il dolore in giudizio e il giudizio in vendetta: decise di ripudiare Maria in segreto. E qui, per l’uomo giusto di Betlemme, inizia la grande sfida, il grande cambiamento. Un sogno, una voce, una certezza che si fa strada: Dio chiedeva a Giuseppe di non credere più solo alle Sue promesse, ma di riconoscere la Sua presenza nel grembo di quella donna.
Era una svolta radicale: si trattava di fidarsi non soltanto della parola di Qualcuno, ma dell’eccezionalità che stava lì, davanti ai suoi occhi. Avrebbe Giuseppe ceduto? Avrebbe accettato di abbandonare i suoi schemi, le sue certezze, le sue mille consapevolezze di uomo maturo, per arrendersi a quell’inizio di vita che palpitava nel grembo di Maria?
La fede, in fondo, è questo: abbandonare l’uomo vecchio, ciò che uno – con tutti i suoi studi e la sua intelligenza – pensa, per abbracciare Colui che c’è, Colui che nasce, Colui che è più grande di tutte le nostre ragioni perché è il vertice della ragione. Con parole e silenzi che restano per noi solo sconosciute suggestioni, a Nazareth avvenne il miracolo: Giuseppe credette. E da epigono di una storia grande senza paragoni, divenne con Maria l’inizio di un popolo che avrebbe segnato la vita di tanti sulla terra.
Giuseppe, il padre, si fece discepolo del Mistero, attento scrutatore di una Presenza buona che sarebbe stata per anni “figlio”. Era così che Dio manteneva le promesse: non con la banalità di regalare ad un uomo ormai vecchio la gioia di una storia già scritta, bensì con la sorpresa di un volto, di uno sguardo, che lo restituiva all’esistenza totalmente afferrato da un amore che non avrebbe mai saputo descrivere.
Giuseppe insegnò a Dio a pregare, Gli insegnò a fare il mestiere di carpentiere, Gli spiegò l’avvicendarsi delle stagioni, Lo consolò nell’ora delle paure. Colui che si aspettava tutto da Dio ebbe come compito di custodire Dio perché – al tempo opportuno – potesse salvare tutto.
La paternità di Giuseppe non era una paternità reclamata, voluta come quelle che a volte si chiedono nelle piazze o inseguita come quelle che in tanti cercano per realizzarsi: la paternità di Giuseppe era un servizio al Mistero. Quel figlio non era suo perché nessun figlio è del proprio padre, quel figlio non era al mondo per farlo felice, ma per farlo santo, per renderlo definitivamente uomo, innamorato, cambiato. Esattamente come ogni figlio che nasce sulla terra.
Ci siamo dimenticati che l’amore non è per farci star bene, ma per realizzare un compito. Che essere genitori non è “avere un figlio”, ma essere capaci di generare vita in ogni figlio che l’esistenza ci dona. A volte si tratta di figli nel sangue, altre volte d’adozione, a volte sono poveri che si incontrano sulla strada e che hanno bisogno di essere generati. Giuseppe fu uomo e fu padre. E poi scomparve. Non lasciò eredità ingenti né si fregiò di perpetrare il proprio nome per sempre. Lasciò il suo sguardo negli occhi di Cristo. Quello sguardo che ancora oggi rifulge ogni volta che Cristo ci guarda.
Perché in fondo i figli sono proprio questo: lo sguardo delle madri e dei padri che continua nel tempo, che attraversa il tempo, per arrivare a riposare nello sguardo di Dio. Per la Chiesa Giuseppe è santo. Per noi che oggi lo raccontiamo è tutto quello che vorremmo essere: uomini così attaccati alla Presenza di Cristo da respirare in ogni istante il profumo di una libertà sconosciuta. La libertà che nasce in ogni figlio dalla gratitudine per chi, nel cammino dell’esistenza, è stato tutto. È stato padre.
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