Caivano, come salvare i sani

Un sito di stoccaggio di anime disperate, un non-luogo, dove lo Stato non serve perché vigono regole e violenza tribali. Rischiamo di non capire Caivano e il "Parco Verde"

La selva di cemento pittata di verde ha dato il nome ad un luogo in cui si sono accasati decenni addietro famiglie, storie e individui messi a sopravvivere in un pezzo di campagna a nord di Napoli. Il “Parco Verde” si chiama così per il colore delle sue palazzine, non per i viali alberati ed i prati all’inglese che evoca. In quel luogo la gente è ammassata senza uno spazio di vita civile propria, emarginata in un sito di stoccaggio di anime.

In quel contesto isolato, come in tanti altri che gli somigliano, le regole e le abitudini si fanno legge. La forza della violenza ha plasmato i caratteri e le gerarchie, senza che la legge civile, la giustizia dei tribunali potessero fare granché.

Tutto si è consumato in un contesto in cui l’isolamento dal mondo esterno, la solitudine di quel gruppo sociale, ha sviluppato la logica tribale dei clan, con un potere detenuto dai più violenti e gli altri, lasciati senza protezione, costretti a chinare la testa. Una tribù che ha maturato i suoi riti di iniziazione e di sangue, che ha prodotto una sottocultura fatta di soprusi e abuso.

In quei luoghi i bambini sono stuprati e uccisi da adulti, e oggi, da abusati, violentati da quasi coetanei, come oggetti di piacere. Bambini presi per giocattoli del sesso da altri bambini convinti di essere adulti. Una tribù che si è protetta, ha protetto i suoi riti violenti ed autoprodotti, nascondendo per mesi le atroci normalità dello stupro collettivo.

Questo sistema sociale ha una sua forza intrinseca che lo difende e lo perpetua. Ha la capacità di generare potere e ricchezza in chi lo governa. Nelle gerarchie di questi luoghi i capi sono padroni, la strada del successo è diventare come loro. Avere i denari facili della droga tra le mani, le pistole sotto il cuscino, praticare la violenza ed i suoi riti iniziatici. Il “fuori” non esiste.

La vita di lavoro, lo studio come emancipazione non sono neppure un’ipotesi. E non solo perché manchino strutture o uomini. Semplicemente perché non è quella la loro parabola. Nelle regole della tribù lo stipendio mensile dato da un lavoro è un’opzione che non alletta. Non gratifica. Comandare, vivere con i propri riti, soggiogare chi non usa la violenza, essere alieni allo Stato è l’unica via. In questa logica o ci si aggrega alla tribù o la si subisce. E chi ne è vittima viene deriso come debole.

Perciò lo Stato lì non è che non esiste. A loro, ai capi tribù, non serve. Perché è un mondo ultroneo e distante, è qualcosa che non redime, non dà benessere e contro cui rivoltarsi quando applica le sue leggi che la tribù non riconosce.

La scuola è un luogo da praticare solo per esercitarsi a violarne le regole, certi che il percorso di formazione al massimo li porterà a fare gli operai al Nord, con il rischio di venire travolti di notte sui binari in una stazione del Piemonte. Di conseguenza non serve rifare le piscine, mandare i professori. Quei luoghi vanno disgregati, quelle famiglie estratte da quel contesto e ristrutturate.

Quello che c’è lì non è un semplice fenomeno di criminalità. È grumo sociale alieno e forte, consolidato e potente, contro cui l’unica arma è lo sventramento fisico e sociale, portando a livello del prato verde quelle case costruite nel nulla e che oggi sono la tana di una devianza sociale collettiva.

Certo ci sono quelli che subiscono, persone dannate a cui la quotidianità riserva l’assenza di Stato e la presenza della violenza. Anche per loro non c’è altra soluzione. Portarle via e dar loro una vita degna o costruire attorno a loro una fortezza sociale e fisica che gli consenta di non subire per una vita l’assalto della tribù, del clan, che non ha altra cultura che quella della violenza.

Non è la povertà il nemico, neppure il bisogno. È il modo in cui se ne esce il vero dramma. E di questo nessuno si occupa da decenni. Nessuno che abbia compreso quanto il Pnrr di Draghi fosse rivolto a loro, come disse lui stesso, creando uno sviluppo economico che potesse dare riscatto. Nessuno che abbia compreso come lo Stato avrebbe dovuto dare risposte occupazionali per dare forza alla parte sana con redditi dignitosi ed una cultura del lavoro nuova.

Perciò, se al Parco Verde vogliamo fare la piscina e ridipingere la scuola, perdiamo tempo. Anche se scegliamo un bel colore azzurro o un murales d’autore quelle palazzine resteranno verdi dentro. Verdi come il livore e la rabbia che generano, come la muffa dei sottoscala, come la rabbia che posti come questo generano in chi ci capita. Lavoro, sviluppo, servizi. Il resto è solo maquillage.

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