C’è il libro di Jonathan Haidt, docente di psicologia sociale alla New York University, e c’è la ricerca di Jean Marie Twenge, psicologa alla San Diego State University. Il primo spopola da alcune settimane nelle librerie d’oltreoceano con il saggio emblematicamente intitolato The Anxious Generation, la seconda ha preferito un approccio più rigoroso, generalmente più apprezzato in ambito scientifico. Entrambi, però, hanno per comune oggetto del loro lavoro il rapporto tra la GenZ e gli smartphone, evidenziando all’unisono come tale rapporto risulti quanto meno problematico.
Negli anni Dieci del XXI secolo, infatti, ansia e depressione sarebbero aumentate fra i giovani statunitensi di circa il 50%, accompagnate da un crescendo di disperazione, isolamento e autolesionismo: per l’America si tratta ormai di una vera e propria emergenza sociale collegata all’uso dei dispositivi elettronici. Più in generale, sono tutti i Paesi del blocco americano a interrogarsi: il premier britannico Sunak ha da poco proposto al parlamento di varare il divieto di uso degli smartphone per i minori di 16 anni e anche in Italia si moltiplicano segnali di allarme con realtà molto autorevoli, come l’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che rendono noti i dati di accesso al pronto soccorso negli ultimi quattro anni, evidenziando un’impennata fra i giovani del 40% dei casi di tentato suicidio per ansia o depressione.
Il quadro sembra dunque chiaro: la rivoluzione digitale non produce benessere mentale. Eppure in quest’approccio c’è qualcosa che non convince, perché è evidente che non sono i telefoni a rendere i ragazzi più soli, ma è la solitudine a spingere i ragazzi sui telefoni. Non è la tecnologia a generare un problema esistenziale, ma è il problema esistenziale a produrre un uso disumano del mezzo tecnologico.
Occorre andare alla radice di quello che non può essere ridotto a semplice problema morale – l’uso del telefonino – ma che si configura come una questione culturale. La società odierna, per quanto concerne il perimetro di quello che noi chiamiamo Occidente, è infatti frutto di un processo che abbraccia almeno quattro secoli. Essa sorge all’indomani della riforma protestante e della drammatica spaccatura che dilaniò l’Europa nel XVI secolo: furono proprio le guerre di religione, e le loro efferatezze, a convincere le élites europee a immaginare una società senza Dio, teorizzando che all’assenza della religione sarebbe presto corrisposta un’assenza di violenza, una pace perpetua.
Quello che gli illuminati del Settecento non compresero è che la domanda di senso non è una sovrastruttura generata dalla religione, ma un fatto costitutivo dell’uomo, al punto che ogni individuo – privato di un’ipotesi di risposta al desiderio del cuore – subito s’avventura per cercarne un’altra. Tramontata la stagione in cui la felicità aveva a che fare con l’Essere, iniziò una nuova fase in cui la felicità coincideva con l’avere. Qui si innestò la rivoluzione industriale e l’avvento della società capitalista: nel proporre agli uomini di ogni classe sociale la possibilità di “avere” per essere felici. Il punto è che la felicità che provoca l’avere ha una durata effimera e deve essere presto sostituita con un altro avere. Ogni cosa che l’uomo riesce a possedere inevitabilmente si consuma e richiede il possesso di un’altra cosa. Tutto, in questo modo, si trasforma in un bene di consumo che soddisfa l’uomo per un po’ in attesa di essere sostituito: il cibo, gli oggetti, il lavoro, l’amicizia, le relazioni umane, l’amore, ma anche il corpo, l’identità o il suolo. Per una ricerca insaziabile tutto diventa terreno di consumo e tutto resta poco e piccino all’animo umano.
Quest’amarezza, che ognuno di noi percepisce nell’esaurirsi della promessa che si porta appresso la realtà, coincide con quello che chiamiamo solitudine: è l’avvertire ogni nostra mossa – tesa a rispondere al bisogno del cuore – come vana, vacua, inutile. La rivoluzione tecnologica porta tra le mani delle persone un mondo in cui gli oggetti da consumare non finiscono mai, in cui sembra che la domanda dell’Io possa essere alimentata in eterno, un mondo di cose che promettono al soggetto una continua soddisfazione. L’effetto ipnotico dei cellulari sui ragazzi, ma anche sugli adulti, sta tutto in quest’opportunità di pienezza e di intrattenimento che sembrano offrire all’umanità come soluzione al dolore e alle domande che ciascuno si porta con sé: foto, video, post, commenti, articoli non sono altro che un genere di conforto inesauribile che trascina tutta l’attenzione delle persone mortificando il valore della realtà. Il “piacere figlio d’affanno” di leopardiana memoria, che descrive la felicità come una fatica che si conquista nel reale, è sostituito da un piacere figlio di uno schermo che regala un bene che non deve essere conquistato ma solo consumato.
È chiaro che il problema della GenZ non è il digitale, ma che cosa può davvero rispondere alle istanze del cuore, come recuperare tutta la fiducia e la familiarità verso il reale, fino a produrre una nuova apertura e una nuova attenzione. Tutto questo, chiaramente, più che un problema, assume le sembianze di un compito educativo che aspetta tutti. Certamente per i ragazzi, ma anzitutto per sé.
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