È passato poco più di anno dalla Dana, che ha causato più di 200 morti e molti danni nella zona di Valencia
È passato un anno dalla Dana, con le piogge torrenziali che hanno causato 237 morti, una distruzione senza precedenti e un profondo senso di impotenza. Eva, una delle persone allora danneggiate, la scorsa settimana ha espresso la sua gratitudine a coloro che hanno contribuito a “incanalare il dolore per trasformarlo in una richiesta di giustizia”.
Quale tipo di giustizia permette di incanalare il dolore, impedisce alla ferita di infettarsi e alla rabbia di diventare eterna? La risposta non può essere semplicemente lasciar passare il tempo. La risposta non può essere semplicemente le dimissioni di alcuni politici o una sentenza del tribunale; non può essere semplicemente che a un certo punto, dopo molti ritardi, le scuole che devono ancora essere ricostruite riapriranno e tutto tornerà alla normalità come prima del 29 ottobre 2024.
Eva parla del dolore di coloro che hanno perso i propri cari, di coloro che sono stati colpiti da una disgrazia che ha cambiato le loro vite da un giorno all’altro. Eva parla dell’indignazione causata dall’incapacità dei politici di assumersi le proprie responsabilità, perché non sono stati capaci di mettere da parte la loro guerra infinita per lavorare insieme e perché i diversi livelli dell’Amministrazione non hanno avuto e non hanno ancora l’agilità e la capacità di risolvere i problemi delle persone colpite.
Una delle prime frasi coniate e utilizzate come grido di battaglia quando migliaia di persone dovettero sopravvivere sepolte nel fango è stata “il popolo salva il popolo”. Era un’espressione con connotazioni religiose. Era un modo per rimproverare il Governo regionale, il Governo nazionale e lo Stato nel suo complesso per aver fallito quando ce n’era più bisogno.
C’era bisogno di salvezza: aiuti di emergenza efficaci, acqua pulita, un tetto e le risorse umane e meccaniche per sgomberare le strade. Ma la salvezza era necessaria anche sotto forma di qualcuno che ascoltasse le grida e stesse al fianco di coloro che si sentivano soli e abbandonati.
“Il popolo salva il popolo” non era solo lo slogan di coloro che cercavano di trarre vantaggio ideologico dalla tragedia, non era semplicemente un grido di rabbia. Era un grido di aiuto. È stato anche un modo per ringraziare le migliaia di volontari che, fin dall’inizio, hanno dedicato tanto tempo ed energie a star vicini alle vittime. La dimostrazione di solidarietà è stata la prova che non tutto è stato spazzato via dall’acqua: quando qualcuno soffre, è disumano restare a guardare.
Durante quest’anno, tuttavia, è diventato chiaro che “il popolo non può salvare il popolo”. È già tanto che così tante persone siano state disposte ad aiutare e offrire supporto. Ma non basta per ricostruire o per rispondere alla richiesta di giustizia di cui parla Eva.
L’esperienza di questi dodici mesi ci ha dimostrato che un’area come quella colpita dall’alluvione di Valencia non può essere ricostruita senza uno Stato forte e agile, in grado di soddisfare i bisogni di una società gravemente colpita. L’attività delle imprese si è ripresa tra il 70% e l’80%, grazie principalmente ai pagamenti delle assicurazioni. Ma una parte significativa dei fondi pubblici non arriva alle persone colpite perché il Governo li ha inviati ai comuni, che non hanno la capacità di gestirli.
Il popolo non può salvare il popolo, anche se il popolo parla attraverso i giudici. Il giudice che indaga sulle responsabilità dei politici, sulla loro negligenza, sul fatto che non abbiano inviato in tempo un allarme che avrebbe potuto salvare delle vite, sta facendo il suo lavoro. Ci sarà una sentenza, che probabilmente richiederà molto tempo per arrivare e potrà essere impugnata. Stabilirà con precisione la verità giuridica del caso.
Quella sentenza sarà molto importante per Eva e per il resto delle vittime. Ma non sarà sufficiente. Perché ciò di cui ognuno di loro ha bisogno è smettere di essere solo una vittima. Cosa su cui la giustizia dei tribunali non può nulla. Non troveranno giustizia se, oltre a provare rabbia e indignazione, dolore per l’assenza di coloro che sono morti, non sperimentano riparazione, amore o risarcimento che abbiano più peso nella loro vita del danno subito. In questo consiste la salvezza.
E un popolo, un popolo che è semplicemente un popolo, non può essere di per sé la fonte di quella salvezza, di quella riparazione, di quell’amore e di quel risarcimento.
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