Una promessa da riconoscere

Di fronte alla situazione che vivono i giovani ci sono genitori che si chiedono come si possa e come si faccia, in tutto questo, ad amare

Un sedicenne a Messina, un altro Napoli, un diciottenne di nuovo a Napoli. Termina in questo modo il lungo elenco di adolescenti che negli ultimi mesi sono stati uccisi o feriti in agguati mortali, rapine o incidenti dolosi. Dietro ciascuno di loro ci sono genitori, famiglie, amici: intere vite straziate e cambiate per sempre.



L’età che va dai 14 ai 19 anni è sempre di più al centro di studi, dibattiti e confronti. Sono i ragazzi nati tra il 2007 e il 2011, cresciuti all’ombra del Covid e affacciatisi al mondo con lo smartphone in mano, gli airpods nelle orecchie, la trap e l’indie in testa. Alcuni di loro sono diventati vittime, ma altri – non pochi – carnefici. Tutti, chi prima e chi poi, sono fonte di preoccupazione per genitori ansiosi, per statistiche scolastiche allarmanti, per educatori sconcertati e desiderosi di trovare un modo per raggiungerli.



Il verbo non è casuale perché è la distanza il vero sentimento che percepisce chiunque li avvicini fisicamente. Una distanza che non è affettiva e neppure intellettuale. Si tratta di una distanza morale, nella concezione della realtà. Il digitale, in questo senso, ha avuto davvero un impatto non banale: il tempo e lo spazio sono per loro definitivamente deformati, e – di conseguenza – anche categorie come vero o falso, o fenomeni come l’interiorizzazione del giudizio altrui, cose che temono, fuggono ed esorcizzano. Perfino la parola “amicizia” risulta completamente stravolta e fa venire nostalgia per quando era utilizzata con ironia in riferimento a Facebook.



Oggi l’amico è quello con cui ti scrivi e ti mandi i reel, la “tipa” che ti piace è quella che ti segue o a cui metti like alle storie nell’attesa che si faccia viva in direct. E c’è tutto un linguaggio che accompagna questa stagione: basato, real, irl, gasa, lerpare, flexare. Il lettore medio capirà poco di queste parole: si usano nelle chat – meglio Telegram che Whatsapp, meglio Instagram che TikTok, meglio Reddit che Pornhub, meglio YouTube di Twitch – o nel mondo del gaming. Un tempo c’erano i videogiochi e i livelli da superare, le ambientazioni da perlustrare, gli aggiornamenti di Fifa da non perdere. Adesso dietro ogni partita c’è un mondo di amicizie e di ideologie.

Foto di Cori Emmalea Rodriguez (Pexels)

Già perché la Gen-Z (si chiamano così quelli nati tra il 1997 e il 2011) la politica la scopre giocando a Fortnite, Call of Duty, Apex Legends o Genshin Impact. Non ama eccessivamente i podcast, mentre è lontana anni luce da X o da Facebook (roba per vecchi, attenzione: boomer non si dice più). Tra una partita e l’altra, fatta in rete con altri amici che stanno in altre case, si chatta, ci si scambiano materiali di ogni tipo, si viene a contatto con vecchie e nuove ideologie, tornano di moda fascismo e nazismo come emblemi di una generazione che si sente prostrata dai comfort e in fondo desiderosa ancora di “ardere”.

È in questi ambienti, permeati anche dalla cultura woke, che ha preso forma l’omicidio di Charlie Kirk e che prendono forma miti, leggende, nuove violenze. Tutte possibili per un rapporto alterato con l’esperienza in cui al soggettivismo e al relativismo di ratzingeriana memoria si è sostituito un solipsismo che rende tutti poveri di legami corporei e, quindi, in balia di ogni ancoraggio. Coerenza, costanza e attenzione sono delle chimere in questo scenario, dove tutto congiura a sabotare la presenza del soggetto nelle cose presenti.

Tra non molto vedremo l’impatto che tutto questo avrà sul mondo del lavoro, sulla gestione della cosa pubblica, sulla stessa responsabilità sociale. Al momento sono i genitori che si godono lo spettacolo in prima fila, tra bullismo, cyberbullismo, violenza come quella descritta in apertura, fluidità di genere, disturbi alimentari, ritiro sociale e ansia. E sono i genitori che si chiedono, senza mezzi termini, come si possa e come si faccia, in tutto questo, ad amare.

Non è semplice rispondere, ma il rapporto con molti di loro qualcosa suggerisce. Anzitutto è bene chiedersi che cosa bisogna amare. Qui sta la prima nota dolente: l’affetto serve a poco o niente. Questi ragazzi sono cresciuti nell’affetto e nella cura. L’amore vero, quello che fa la differenza, è al destino. Se uno tiene fisso lo sguardo su di loro, entra nel loro stesso loop, ma se uno tiene fisso lo sguardo sul destino, trasmette direzione e senso, trasmette destino.

I cristiani dicono, seguendo Giovanni Paolo II, che un volto nasce da quello che uno guarda. L’adulto nasce se guarda il paradiso e lo guarda per sé, come la meta della propria vita. L’autorevolezza non nasce dalla coerenza o dal dire la cosa giusta: l’autorevolezza nasce da un uomo o una donna che guardano alla meta.

A questi ragazzi, in primis, serve il profumo di una meta. Poi, in seconda battuta, è bene dire che tutte le cose che questi giovanotti seguono sono cose che passano. La sfida vera, per un adulto, è restare senza lasciarsi spostare dalle provocazioni, dagli errori, dai test che quotidianamente assillano la vita di chi è accanto ad un adolescente. Se uno resta, anche loro imparano a restare. E cambiano.

Amare il destino, restando presenti qualunque cosa accada, qualunque errore incomba, qualunque irrispettosità si faccia strada. Ma non basta. Il segreto che debella ogni violenza e ogni anomalia dei ragazzi è l’ascolto, la curiosità. I figli e gli studenti non sono qualcosa da aggiustare, sono una promessa da riconoscere.

Chi vive di questa promessa è già oltre la violenza di Napoli e Messina, è già oltre l’impotenza. Presidia l’alba di una generazione che vedrà il sorgere del XXII secolo.

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