Ventotene, chi era costui?

Il dibattito di scorsa settimana sul Manifesto di Ventotene porta quasi naturalmente a riflettere sull'Europa

Ventotene, chi era costui? Il mio amico Pino è andato a leggersi il Manifesto per l’Europa federale scritto nel 1941 da Spinelli, Rossi e Colorni, confinati dal regime fascista nella remota isoletta. Il Pino è di quelli, sperabilmente non pochi, che cercano di capire, piuttosto che prendere parte per tifoseria preconcetta alla bagarre politica.



Allora faccio un po’ come il mio amico Pino e provo a considerare alcune idee forza, quelle credo può significative, sull’unità dell’Europa. Visioni anche differenti ma non necessariamente in tutto e per tutto conflittuali.

Partire da Ventotene ha certamente un senso, se non altro per ragioni cronologiche, ma non solo.



Il Manifesto muove da questo giudizio: l’idea di nazione, originariamente positiva, ha generato il nazionalismo e questo, fondendo in un corpo solo nazione e Stato, ha generato il totalitarismo nazi-fascista. Per cambiare la situazione non basta la pur necessaria vittoria militare sulla Germania. Occorre abolire le sovranità nazionali, creando una sovranità superiore, europea appunto e federale. L’Europa federale non significherebbe solo un cambiamento del potere e delle istituzioni politiche, ma una rigenerazione dei diritti di libertà e della vita sociale ed economica, non più dominata dai gruppi monopolistici, ma orientata dal nuovo potere federale al benessere collettivo, in un regime democratico…



Ma qual è il soggetto di una simile transizione? Per Spinelli non i vecchi partiti prefascisti, nemmeno quelli di massa come i socialisti e i popolari, che hanno già fallito e non sono sufficientemente determinati; nemmeno i comunisti, perché fare perno sul solo proletariato divide e isola, e d’altra parte l’abolizione comunista e indiscriminata della proprietà privata conduce a un sistema repressivo (Spinelli era anche stato espulso dal PCdI nel 1937). Il soggetto individuato da Spinelli è un nuovo partito rivoluzionario, laico e liberal-socialista, capace di unificare e guidare le forze progressiste.

In questa fase di transizione rivoluzionaria, il partito guida agisce in maniera dittatoriale fino alla creazione delle nuove istituzioni federali democratiche. Perché? Perché il popolo non ha le idee chiare. Siamo nel 1941 e il consenso a Hitler e Mussolini è ancora forte. C’è chi ha paura, chi è disorientato, chi plagiato della propaganda… Tocca allora alle élites intellettuali progressiste consapevoli, insieme agli strati più coscienti del proletariato, mettere in atto e dirigere il cambiamento.

Ernesto Rossi, coautore del Manifesto, proveniva dalla Gioventù Liberale di Carlo Rosselli, ed era rimasto influenzato dalle dottrine economiche e politiche di Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, teorici tra l’altro dell’elitismo, cioè della legge per cui la storia, qualunque sia il regime vigente, la fanno le élites (non gli umili, per dire, non le forze che cambiano il cuore dell’uomo, non la classe operaia…)

Le vicende successive andarono diversamente.

Gli Stati nazionali – stiamo all’Italia – uscirono dal fascismo non per la leadership di una nuova forza rivoluzionaria progressista, ma per il concorso e la cooperazione tutti i partiti politici che avevano fatto la Resistenza, Essi costituirono il governo provvisorio, fecero scegliere al popolo se confermare la monarchia o passare alla repubblica, elessero un’assemblea costituente che varò una costituzione.

La via alla democrazia “nazionale” fu democratica e non elitaria/dittatoriale. I tempi erano cambiati e i rappresentati dei partiti di massa se la cavarono egregiamente.

Quanto al progetto europeista, si mise in moto all’inizio degli anni 50 con altri protagonisti: tra questi, gli statisti cristiani De Gasperi, Schumann e Adenauer, i quali avevano una concezione positiva delle comuni radici cristiane dei popoli europei e del valore delle esperienze popolari in chiave di cultura sussidiaria; la preoccupazione primaria non era l’antifascismo (si era ormai in democrazia) ma la pace; il loro metodo, pragmatico (si iniziava dal disinnescare la miccia del carbone e dell’acciaio, non da un disegno compiuto da applicare). Ciò non toglie che anche De Gasperi immaginasse per l’Europa un traguardo federale (come traguardo, non come presupposto) e con Spinelli ebbe un costante dialogo anche recependone alcune idee e suggerimenti.

Questo perché la gente in gamba non è mai manichea.

Negli anni 50, la Comunità europea nacque dopo che era stata stabilita a Yalta la divisione nelle due aree di influenza Est-Ovest. Quindi l’Europa unita era pensata solo come Europa occidentale, sotto l’ombrello Nato, già allestito prima.

La grande novità fu quella portata da Giovanni Paolo II. Egli sfondò, per così dire, la cortina di ferro prefigurando un’Europa dall’Atlantico agli Urali, che supponeva la caduta del comunismo, e che egli vedeva possibile sulla base della riscoperta delle radici cristiane comuni ai popoli europei occidentali e orientali, latini e slavi. Gli Urali erano nella sua visione un confine geografico ma anche il punto di arrivo dell’evangelizzazione cristiana tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo. Prima evangelizzazione di quei popoli e nascita delle nazioni sono contemporanei e, per Wojtyła, strettamente legate, al punto che parla di “nazioni nate dal Battesimo”.

L’Europa dei popoli e delle culture è dunque anche l’Europa delle nazioni, per il Papa polacco. Perché? Perché nella sua visione la “nazione” non è affatto identificata con lo Stato; e anche la sua esperienza diretta in un Paese sotto il regime comunista gli ha fatto conoscere lo Stato totalitario come camicia di forza imposta, ma estranea al carattere nella nazione, alle sue origini, al suo ethos, alla sua cultura, al comune sentire della sua gente. Così la nazione ha una sua propria identità non assimilabile a un potere, men che meno se dittatoriale.

L’Europa di Wojtyła doveva in estrema sintesi alimentarsi dalle comuni radici e respirare a due polmoni. Maastricht, invece ha disegnato un’Europa buro-tecnocratica senza radici e un solo polmone dilatabile ma unico.

Benedetto XVI, a sua volta, ha lucidamente ammonito che un’Europa sradicata, dominata dal relativismo nichilista, si sfalda. L’Europa che in questi giorni cercano di rabberciare dall’alto, passa sopra la testa dei popoli con i suoi piedoni che però sono d’argilla.

Che cosa può tornare a creare una spinta reale all’unità tra gli europei? Non le religioni come pratica, ormai desuetissima; non gli antichi valori rimasti senza fondamento e senza capacità persuasiva; e men che meno i “nuovi diritti” individuali cosiddetti. Forse può esserlo l’unica cosa che nell’uomo, in qualsiasi situazione, non può mai essere del tutto eliminata: il suo elementare, nativo, assoluto bisogno di giustizia, verità e bellezza.

Ciò che in una parola a buon diritto si può chiamare senso religioso, che urge l’uomo all’apertura, e perciò contrasta ogni chiusura. È infatti da esso che sgorgano desideri costruttivi che associano gli uomini e i popoli in una creatività condivisa. Quella energia che una cultura sussidiaria apprezza e favorisce, mentre una cultura elitista la ignora.

Certo, l’Europa, per esistere e contare qualcosa di più del due a briscola, ha bisogno di essere un vero soggetto politico. Più Stato, sì. Purché sia insieme più società.

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