Nel dibattito relativo alla scuola italiana ci si dimentica l'unico motivo per cui un adulto o una legge dovrebbero occuparsene. Ce lo ricorda Agostino
Sulla scuola infuria sempre una qualche battaglia. Vuoi che si parli di studio del latino o della bibbia, vuoi che al centro del contendere ci sia l’esame di maturità o che – più semplicemente – accada, come spesso accade, qualcosa di significativo per la cronaca, nella scuola nulla sfugge alla lente di ingrandimento della società e dei media.
Questo non avviene soltanto perché, in fondo, in tanti sanno che la scuola conta e che sulla scuola si decide praticamente tutto circa il nostro futuro di comunità e di capacità di risposta alle sfide del tempo presente. Il vero tema è che a scuola ci vanno tutti e che tutti capiscono che quei quindici anni di vita, così diversi tra loro al punto tale da essere necessario parlare di “scuole” al plurale, delimitano la nostra terra d’origine.
Parafrasando de Saint-Exupéry, si potrebbe dire che ognuno proviene dalla scuola che ha fatto, dai volti che ha incontrato e dal tempo che tra i banchi ha vissuto: quella è la vera patria che differenzia e accomuna. Al punto tale che, se si potesse stilare un elenco di quello che c’è in una scuola, si dovrebbe dire che certamente ci sono gli adulti, ci sono i pari, ci sono le cose da imparare, ma soprattutto c’è l’Io, quel grumo di bisogni e desideri che costituisce la struttura di fondo di ogni persona.
L’io di un bambino, di un ragazzo o di un giovane, ha però delle peculiarità che dovrebbero sconsigliare a ogni adulto assennato di trasformare le aule di scuola in una fucina di esperimenti ideologici o di rivendicazioni reciproche: la scuola è un terreno delicato, fragile, in cui non c’è bisogno di qualunque adulto, ma di adulti che assomiglino a quei cantieri che – quando li accosti – ti rendi conto che c’è sempre qualcuno a lavoro.
Se l’adulto, infatti, non tiene vivo il cantiere del proprio Io difficilmente riuscirà non solo a intercettare l’Io di chi ha davanti, ma neppure le dinamiche profonde di una classe o – più banalmente – il percorso di apprendimento dei discenti: senza un uomo a lavoro, difficilmente un piccolo uomo diventerà grande. Senza un uomo intrinsecamente legato a un villaggio più grande, difficilmente un piccolo uomo imparerà davvero qualcosa.
L’adulto è come il cuore della scuola: con il proprio battito dà ordine e vita a tutto ciò che lo circonda e i ragazzi si sintonizzano progressivamente su quelle frequenze cardiache trasformandole nel ritmo del proprio cammino formativo, intellettuale, umano o affettivo che sia. Tanto più che, come si osservava poc’anzi, l’Io di un giovane ha peculiarità importanti rispetto a quelle di un uomo formato, peculiarità che è bene non travalichino mai i sacri confini dell’adolescenza per non inficiare la solidità di una vita adulta.
In effetti, un uomo adulto dovrebbe saper giudicare, ossia far diventare l’esperienza una conquista stabile e definitiva, mentre i bambini e i ragazzi sono profondamente origeniani. C’è un dibattito, infatti, che accompagna l’età d’oro della patristica che è illuminante: per Agostino la libertà di cui ogni uomo dispone è sempre figlia delle scelte che ha compiuto, per Origene – al contrario – nessuna scelta ha la possibilità di fissare la libertà per sempre.
Origene, oggi, sarebbe una vera star: tutti vogliono essere sempre nuovi e tutti vogliono davvero ricominciare sempre daccapo. Eppure, aveva ragione il povero Agostino: nell’esperienza umana o le cose che si vivono diventano un giudizio o non si impara mai nulla e tutto è sempre, costantemente, rimesso in discussione. Gli studenti sono una specie di fan club origenista e ogni mattina, con loro, occorre sempre ripartire, senza dare nulla per scontato, al punto che gli insegnanti migliori sono spesso quelli che sanno ripetere e ripetersi di più.
Non si impara mai in maniera lineare e, un tempo, la storia era addirittura affrontata per ben tre volte, una alle elementari, una alle medie e una alle superiori, nella consapevolezza legislativa che era il ripetersi delle informazioni a fare la differenza. In parte questo è corroborato da un altro elemento spesso trascurato o dimenticato da chi parla di scuola: il tempo in quegli anni segue un’accelerazione particolare. Provate a lasciare tre mesi Carletto senza incontrarlo neppure per strada: potreste ritrovarvelo fidanzato, con i tatuaggi e autore di murales di inquietante gusto firmati da uno sconosciuto “Karl”.
La nostra ora non è una loro ora, la nostra giornata non dura una loro giornata, la nostra settimana non ha nulla a che fare con la loro settimana. Per uno studente o una studentessa il tempo è velocissimo: se uno avesse l’onere e l’onore di accompagnare qualche giorno una classe in gita, potrebbe sperimentare senza ombra di dubbio le dinamiche di un mese intero. E quelle stesse dinamiche avrebbero una forma del tutto particolare di presentarsi, mescolando percezioni, pensieri ed emozioni in una combinazione che rende complesso a un bambino o a un giovane distinguere ciò che è da ciò che si sente o si pensa.
È una grande confusione in cui, paradossalmente, emerge ancor di più quello che è irriducibile: il desiderio radicale di felicità che connota lo sguardo di ogni ragazza e di ogni ragazzo. Un desiderio che le riforme spesso non considerano, che i dibattiti dimenticano, ma che resta l’unico motivo per cui un adulto o una legge dovrebbero occuparsi di scuola. Per impedire che nessun cinismo o ideologia spenga quella luce del cuore che è la vera speranza della vita.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.