Chiesa, la vera riforma

Papa Francesco ha esortato i cristiani a rinnovare il proprio incontro con Cristo, e tutti gli altri ad ascoltare il grido di verità che sostiene il cuore

“Se non pensiamo che Francesco sia la cura è perché non capiamo la malattia”. Raccogliendo la sfida di queste parole, spesso ripetute da don Julián Carrón durante il pontificato di Papa Francesco, ho imparato a guardare con curiosità le mosse del Pontefice, certamente fuori dagli schemi cui ero abituato e nei quali mi sentivo tranquillo.



La prima Esortazione apostolica del Papa, Evangelii gaudium, fu una vera e propria boccata d’aria fresca, non rispetto al passato, ma a un certo modo stantio di vivere il presente, fatto di riproposizione di cose a cui nessuno crede più, di parole dette senza crederci, di giudizi dati per far fuori l’altro, di concetti chiari e ben ribaditi che non muovevano nessuno.



Subito, all’inizio dell’Esortazione, troviamo una delle provocazioni più struggenti: “Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui” (n. 3).

In questi giorni la retorica di quasi tutti i mass media è segnata dalla presentazione del Papa come se Cristo non avesse nulla a che fare con ciò che è stato in questi anni, come se l’assistenza dello Spirito Santo – certamente mai automatica – si fosse fermata al momento della sua elezione e non fosse invece un “oggi”. Invece c’è un filo rosso che ha attraversato il servizio di Papa Francesco alla Chiesa e a ogni uomo e donna del nostro tempo: la preferenza di Cristo alla nostra vita.



Il culmine di questa trama lo troviamo nell’ultima enciclica, pubblicata lo scorso ottobre, Dilexit nos, che è come un grido finale, un testamento, una tromba suonata nel silenzio assordante del formalismo di molti, anche di quelli che hanno tentato di servirsi di Francesco e della Chiesa.

L’impeto di Evangelii gaudium non poteva trovare destinazione più efficace della Dilexit nos, e rilancio inarrestabile per il futuro. Due colonne che saranno senz’altro sostegno e guida per il prossimo successore dell’apostolo Pietro.

A proposito dell’elezione del Papa in questi giorni ho riletto quello che disse nel 1997 il card. Joseph Ratzinger rispondendo alla domanda se fosse lo Spirito Santo a sceglierlo: “Non direi così, nel senso che sia lo Spirito Santo a sceglierlo. Direi che lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto da quel buon educatore che è, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza pienamente abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico, non che egli detti il candidato per il quale uno debba votare. Probabilmente l’unica sicurezza che egli offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata. Ci sono troppi esempi di Papi che evidentemente lo Spirito Santo non avrebbe scelto”.

Il metodo del “buon educatore” è quello che vediamo negli episodi pasquali raccontati dai vangeli in questi giorni. Gesù è tutto preoccupato che l’avvenimento della sua Pasqua riaccada nella vita di chi lo incontra, senza bruciare le tappe e impedendo che venga rimpiazzato da una spiegazione.

La vicenda dei discepoli di Emmaus, da questo punto di vista, è emblematica: il misterioso Viandante finge addirittura di non sapere ciò che era accaduto a Gerusalemme nei giorni precedenti, pur di non risparmiare ai suoi interlocutori il cammino della scoperta.

Papa Francesco ha seguito la stessa strada, immedesimandosi in chi aveva davanti e dandosi tutto il tempo necessario perché una novità potesse realmente entrare nella vita delle persone, non a forza di discorsi, ma di un’attrattiva che sappia toccare il punto più infuocato della persona: “In questo mondo liquido è necessario parlare nuovamente del cuore; mirare lì dove ogni persona, di ogni categoria e condizione, fa la sua sintesi; lì dove le persone concrete hanno la fonte e la radice di tutte le altre loro forze, convinzioni, passioni, scelte. Ma ci muoviamo in società di consumatori seriali che vivono alla giornata e dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia, senza molta pazienza per i processi che l’interiorità richiede” (Dilexit nos, 9).

La tentazione di rimpiazzare con discorsi e spiegazioni è sempre dietro l’angolo, ma come scriveva il grande Charles Péguy, citato da Balthasar in Stili laicali: “Quando si dice che la Chiesa ha ricevuto delle promesse eterne, bisogna rigorosamente intendere con questo che essa ha ricevuto la promessa di non soccombere mai sotto il suo proprio invecchiamento, il suo indurimento, sotto il suo irrigidimento, sotto la sua abitudine e la sua memoria. La promessa di non diventare mai legno morto e anima morta. Di non soccombere mai sotto i suoi dossier e la sua storia. Di non soccombere mai sotto l’accumulazione delle sue scartoffie e sotto la rigidità della sua burocrazia. E che i santi scaturiranno sempre di nuovo” (Note conjointe sur M. Descartes et la philosophie cartésienne, 1914).

Per questo l’unica cosa da domandare e da aspettarsi è la grazia della santità, che è la vera riforma, perché è la riforma di sé. Forse di questo si trattava quando il Papa chiedeva di pregare per lui.

L’avventura della Chiesa continua, dentro le vicende del mondo, con la stessa e implacabile alternativa che lo stesso Francesco delineò in occasione degli auguri alla Curia romana per il Natale 2023 e che, in questi giorni, appare più che mai urgente a fronte di tante partigianerie: “La differenza non è tra progressisti e conservatori, ma tra innamorati e abituati”. Ciascuno può verificare cosa desidera maggiormente per la propria vita, cosa è in grado di rispondere all’anelito del cuore. Cosa, finora, ha contribuito al cambiamento di sé. L’alternativa è continuare a non capire qual è la malattia.

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