Cosa ci salva dall’errore?

Il popolo ebraico ci ricorda che la storia cambia quando Dio assume l’iniziativa. Essa è sempre un fatto che ci stupisce, perché supera ogni nostra attesa

Chi fa attività fisica, allenamenti o esercizi di vario genere, sa che occorre farla bene, per evitare il rischio di imparare male un movimento e così ritrovarsi, inconsapevolmente, ad allenare l’errore. È un rischio che non corriamo solo con il corpo, ma anche con un certo modo di usare la ragione. Ci si fissa su un particolare, si cercano conferme su questo particolare, si convocano alleati con la stessa fissazione e così, mentre da una parte la realtà non interessa più, dall’altra si fa di tutto per piegarla al preconcetto che si è coltivato.Iniziano così schieramenti e opposizioni, che incastrano ciascuno nell’allenare il proprio errore.



Come non rimanere schiavi di questa logica vecchia e insistente? La vicenda del popolo di Israele ci viene, come sempre, in aiuto. Nella prima lettura della liturgia odierna il profeta Isaia riferisce queste parole di Dio: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43, 18-19).



Gli ebrei sono stati deportati in Babilonia e hanno bisogno di una nuova iniziativa di Dio per essere liberati, iniziativa che sarà ancora più stupefacente rispetto all’uscita dall’Egitto: gli esiliati ritorneranno direttamente attraverso il deserto, trasformato in oasi.

Solo un’attrattiva più persuasiva è in grado di distoglierci dall’allenare l’errore. Per questo Dio è preoccupato di lasciare i suoi figli a bocca aperta, chiamando in aiuto lo stupore. Del resto, lo sappiamo bene e lo vediamo, se la bocca non è aperta a motivo dello stupore spesso si ripiega nella diceria, nei discorsi inutili, nelle controversie, insomma in tutte quelle riduzioni che non sono in grado di introdurre alcuna novità, impedite a dare un qualsiasi contributo.



La liberazione dalla deportazione non sarà l’ultima iniziativa che Dio dovrà prendere con il suo popolo. Tutto è orientato alla vera azione rivoluzionaria della storia: l’Incarnazione. Sarà quella a segnare, e lo fa tuttora, un prima e un dopo. Il Figlio di Dio ha preso un volto, è entrato nel nostro umano. Tutto quello che l’uomo vive dovrà fare i conti, d’ora in avanti, con quel metodo. A cominciare dal suo bisogno di un’attrattiva che duri nel tempo.

Benedetto XVI, nel suo libro Luce del mondo (2010), scrisse così: “Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il Cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un’esistenza vissuta sempre e soltanto ‘contro’ sarebbe insopportabile” (p. 27).

In questa frase è contenuta la sfida della fede di sempre, perché quando ci accorgiamo di non avere noi la chiave dello stupore dell’altro, presto nasce il gusto per la scorciatoia del “contro”. C’è sempre bisogno di un nemico, di una protesta, di un dissenso, di una polemica, di qualcosa o qualcuno su cui scaricare la nostra infecondità.

È un pericolo che colpisce tutti: i rapporti personali, le vicende politiche, la vita della Chiesa, i vari contesti culturali; è come se ci ritrovassimo in un misterioso esilio da noi stessi, autocondannati a occupare tempo ed energie per ciò che non è in grado di suscitare alcun interesse e tantomeno di affascinare qualcuno.

Risuonano così ancora più decisive le parole di Dio riportate dal profeta Isaia: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa”.

Serve solo la disponibilità a restare a bocca aperta, senza illuderci di essere noi i detentori del vero fascino di cui l’uomo ha bisogno, ed evitando, come invece la vita di tanti adulti documenta, di camminare per anni senza fare un passo.

 

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