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Home » Cultura » Storia » 13 APRILE 1945/ Rolando Rivi, la forza di Dio è sempre più grande del male dell’uomo

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13 APRILE 1945/ Rolando Rivi, la forza di Dio è sempre più grande del male dell’uomo

Ottant’anni fa, il 13 aprile 1945, il seminarista Rolando Rivi (1931) venne ucciso dai partigiani in odium fidei. Attingeva la sua forza dall’Eucarestia

Nicola Ruisi
Pubblicato 13 Aprile 2025
Il Beato Rolando Rivi

Beato Rolando Rivi (Wikipedia)

Ottant’anni fa, il 13 aprile 1945, un seminarista venne ammazzato in odio alla religione cristiana. Si chiamava Rolando Maria Rivi e aveva solo quattordici anni. Gli spararono due colpi di pistola alla testa. La sua uccisione è uno dei tanti episodi feroci che sono avvenuti sul finire della Seconda guerra mondiale, con strascichi fino al 1949, in un’area dell’Emilia-Romagna oggi conosciuta come “triangolo della morte”. In quel contesto sanguinario, la sua testimonianza risplende come un raggio di luce e ci aiuta a scoprire il cuore della fede.


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Rolando era nato nel 1931 a San Valentino di Castellarano, sulle colline reggiane. Dalla famiglia, di umili origini contadine, aveva ricevuto un’educazione cristiana improntata alla preghiera e alla carità. Gli amici di un tempo lo ricordano come un ragazzo pieno di vita e lo paragonano a “un fuoco, mai tiepido, sempre ardente”. Era “il più scatenato nel gioco” e allo stesso tempo “il più assorto nella preghiera; con una preoccupazione sincera e costante per il bene degli amici”. Don Alberto, uno dei sacerdoti che lo vide crescere, lo descrisse come “un giovane di sveglia intelligenza e di viva fantasia, sempre entusiasta, tanto che a volte bisognava calmarlo un poco”.


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Sebbene fosse giovanissimo, i ragazzi di San Valentino lo consideravano una guida: insegnava loro a recitare il rosario e a servire la Messa, ma anche a essere leali con gli amici; animava i giochi di gruppo e poi, quando finivano, invitava tutti ad accompagnarlo in chiesa. Il cugino Alfonso racconta di avere imparato da lui “i primi cardini della vita”, cioè a “credere in Dio e nella Madonna con profonda devozione”. Ricorda in particolare queste parole di Rolando: “Se vuoi bene al Signore, vuoi bene a tutti!”.

Era un ragazzo buono e altruista. Quando poteva, donava i pochi soldi che aveva agli amici più poveri, anche per evitare che la fame li spingesse a rubare. I familiari ricordano che, se un mendicante bussava alla porta di casa, lui era il primo a muoversi. “Vado a prendere un pezzo di pane” diceva. E se un povero veniva ospitato a dormire nella stalla, insisteva per portargli le coperte.


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Fin da giovane Rolando maturò il desiderio di diventare sacerdote: era affascinato dalla vita dei due preti della sua parrocchia, don Olinto Marzocchini e don Alberto Camellini, e voleva vivere come loro. Entrò nel seminario di Marola (Reggio Emilia) all’età di dodici anni. Come tutti i compagni indossava la veste talare, che è la lunga tonaca nera distintiva dei religiosi; la portava però con una consapevolezza particolare, perché la riconosceva come un segno di appartenenza a Gesù.

Nell’estate del 1944 il seminario venne occupato dai soldati tedeschi e i seminaristi furono rimandati a casa. Rolando tornò dunque dalla famiglia, nel piccolo borgo di collina in cui era cresciuto. Decise comunque di continuare a vivere secondo la forma di vita che stava imparando e che tanto amava, scandita dalla preghiera, dalla Messa quotidiana e dallo studio.

Il desiderio di diventare sacerdote dominava le sue giornate. Per questo continuò a indossare l’abito talare, rifiutandosi di cambiarlo con normali abiti civili. “Una scelta di coscienza ha fatto Rolando, riaffermando la sua scelta per l’ideale di una vita consacrata a Cristo” (M. Fanelli, 13 aprile 1945. La lotta partigiana e il martirio di Rolando Rivi, Itaca, 2022).

L’odio antireligioso stava però montando, anche nel borgo di San Valentino. Il parroco don Olinto venne brutalmente picchiato e don Alberto fu avvertito di stare in guardia, perché alcuni lo consideravano un nemico da eliminare. L’ostilità verso i sacerdoti preoccupava la madre di Rolando, che invitava il figlio a non farsi vedere in giro con la veste da seminarista. Lui non ne voleva sapere: “Non faccio male a nessuno” diceva “quindi, non vedo perché debba toglierla”.

Era talmente convinto della vocazione cui era chiamato che spogliarsi della veste talare gli sembrava una rinuncia alla sua identità. “La tonaca è il segno che sono di Gesù” ripeteva, affermando allo stesso tempo la sua libertà dalle vicende umane e la decisione di seguire senza riserve la volontà di Dio.

Cosa poteva spingere un ragazzo di tredici o quattordici anni a rimanere tanto fermo nelle sue decisioni quando tutto e tutti suggerivano di non perseverare? Da dove scaturiva una consapevolezza così profonda della sua identità?

A queste domande esiste un’unica risposta: la vicinanza a Cristo. Come santa Maria Goretti, san José Sanchez Del Río e altri giovani martiri cristiani, il beato Rolando Rivi viveva un legame profondo col Signore e voleva mantenersi fedele alla grazia ricevuta. Niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo. Nella sua semplicità, incarnava l’insegnamento di san Paolo: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Nulla potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,31-39).

Proviamo ad approfondire. Qual era la sorgente dell’imperturbabile letizia e del coraggio di Rolando? Quale fonte gli dava vigore? Le persone che l’hanno conosciuto sanno quanto fosse “fedele all’incontro quotidiano con l’Eucaristia”. Il suo insegnante, don Guerrino Orlandini, ricorda “l’amore e l’attenzione di Rolando nel servire la Messa in seminario, e la gioia che provava”. Ecco il punto decisivo: Rolando attingeva la sua forza dall’Eucaristia, che è incontro personale col Signore, presenza reale di Dio in mezzo agli uomini.

La mattina del 10 aprile 1945, come ogni giorno, partecipò alla Messa in compagnia del padre Roberto. Al termine della celebrazione, mentre il papà si avviava verso i campi, Rolando si diresse verso un boschetto nel quale era solito fermarsi a studiare. I genitori lo attendevano per il pranzo. Quando videro che non tornava, andarono a cercarlo nel bosco. Trovarono soltanto i suoi libri sparsi per terra. C’era anche un foglio, staccato dal quaderno, sul quale era scritto: “Non cercatelo. Viene un momento con noi. I Partigiani”.

Il ragazzo era stato portato in un casolare a Piane di Monchio, sull’Appennino modenese: “Da quel momento, tutto quello che accadde a Rolando fu fatto al di fuori delle regole che pure disciplinavano la guerra partigiana e fu motivato solo da un odio feroce contro la fede limpida, la vocazione al sacerdozio, l’appartenenza alla Chiesa, l’amore appassionato a Gesù del ragazzo” (Claudia Mancini, Preti uccisi dai partigiani, laporzione.it, 25 aprile 2012). Venne freddato con due colpi alla testa, mentre pregava per sua mamma e suo papà. La lunga veste nera gli era stata strappata di dosso: arrotolata e presa a calci, era stata appesa a un chiodo, come un trofeo.

Quella di Rolando “fu una scelta di libertà che nasceva dall’amore. Libertà di poter essere se stesso, di mostrare il proprio volto, di aderire visibilmente a Colui che riempiva di significato la sua vita”. (Emilio Bonicelli, Beato Rolando Rivi, seminarista martire, Shalom, 2010). La sua testimonianza non si è spenta nel buio di una tomba scavata nel bosco né nelle tenebre dell’ingiustizia e dell’odio, ma continua a illuminare il nostro cammino di uomini. Come a dire che sì, ci sono state guerre e violenze tremende, ma il punto da guardare, in fondo, è un altro.

Riscopriamo che Gesù resta vivo in ogni epoca della storia, talmente vivo da potergli dare tutto. Impariamo che la nostra realizzazione consiste nel vivere il legame personale con Lui, qualunque sia la strada cui siamo chiamati: “La santità non consiste nel baciare in bocca un lebbroso, né farsi lapidare in terra di pagania, ma fare con prontezza la volontà di Dio, si tratti di restare al proprio posto o di salire più in alto” (Paul Claudel).

Troviamo una ragione per guardare alla nostra esistenza personale e al destino del mondo con fiducia, perché ci ricordiamo che la forza di Dio è più grande del male dell’uomo. Come ha detto papa Francesco: “È dai martiri che ci viene offerta la testimonianza più convincente della speranza cristiana e noi abbiamo bisogno di custodire la loro testimonianza per rendere feconda la nostra speranza”.

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