Pier Giorgio Frassati, tra i suoi gesti di carità quotidiani nelle misere case che frequentava, aveva preso l’abitudine di passare del tempo al capezzale dei morenti, recando loro conforto; questo l’aveva portato a rilevare che la morte, spesso in modo inaspettato e crudele, recide molte speranze terrene.
“Ma dopo tutto”, rifletteva, “chi muore raggiunge il vero fine dell’esistenza; non si dovrebbe compiangerlo ma piuttosto invidiarlo”. E a un caro amico confiderà: “Io credo che il giorno della mia morte sarà il più bello della mia vita”.
Quel giorno gli piomba addosso a soli 24 anni, all’improvviso. Colpito da poliomielite fulminante, è accolto nelle braccia del Padre alle 19 di sabato 4 luglio 1925, esattamente un secolo fa. E a cento anni dalla sua salita al Cielo, la Chiesa – dopo che papa Wojtyła lo ha beatificato il 20 maggio 1990 – lo eleva alla massima gloria degli altari il prossimo 7 settembre, insieme con Carlo Acutis, in una solenne cerimonia presieduta da Leone XIV.
Ma chi era Frassati, al di là di una certa immagine agiografica che tende a raffigurarlo nel “santino” del ragazzo atletico, vivace, spiritoso, appassionato della montagna e di buona compagnia, di agiata famiglia borghese ma vicino ai poveri?
Certamente Pier Giorgio era un tipo aperto, gioviale, sportivo, abile alpinista, impegnato politicamente e amato da tutti per la generosità e la dedizione eroica agli emarginati. Nello stesso tempo tuttavia era capace di stare ore e ore in adorazione davanti al Santissimo, testimoniando con la sua vita, breve ma intensa, cosa significhi avere fiducia completa e senza limiti in Dio e nei disegni della Provvidenza.
Sprizzava freschezza e gioia di vivere da tutti i pori, ma per lui la gioia aveva un significato preciso. Infatti affermava: “Che cosa sono questi pochi anni passati nel dolore in confronto all’eternità felice, dove la gioia non avrà misura e fine?”. Un luminoso esempio di maturità cristiana, che mette al centro la sequela del Signore e non la mondanità.
Nell’esortazione apostolica Christifideles laici del 1988 Giovanni Paolo II sottolinea la “tentazione di legittimare l’indebita separazione tra fede e vita, tra accoglienza del Vangelo e azione concreta nelle più diverse realtà temporali”. Tentazione che non fu del nuovo Santo – vissuto in tempi in cui la secolarizzazione avanzava a grandi passi – grazie alla sua passione per tutti gli aspetti della realtà.
Era convinto che la fede deve confrontarsi con l’intero arco dell’esperienza umana, senza timori, negli ambienti in cui si vive: i giovani militanti cattolici di quegli anni le prendevano indifferentemente dai fascisti, dai comunisti e dai liberal-massoni, ma tenevano duro. Quando venivano staccati dai “democratici” dell’epoca, Frassati riattaccava personalmente i volantini della FUCI affissi nella bacheca del Politecnico di Torino, facendo poi la guardia, senza mollare. La sorella Luciana dirà, molti anni dopo, che gli universitari di CL degli anni 70 offrivano la stessa grintosa testimonianza del fratello e dei suoi amici.
“Un modello che può insegnare qualcosa a tutti” lo definisce pochi giorni dopo la sua morte il socialista Filippo Turati, stupito perché “ciò che si legge di lui è così nuovo e insolito, che riempie di riverente stupore anche chi non condivide la sua fede”.
Un giovane del nostro tempo che parla ai giovani di oggi, il cui testamento spirituale si riassume così: “Nel mondo che si è allontanato da Dio manca la carità, ossia l’Amore vero e perfetto”.
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