“Forse le canzoni di solidarietà non potevano cambiare il mondo, ma potevano attirare l’attenzione sulla lotta. Quando Martin Luther King guidò la marcia su Washington per il lavoro e la libertà del 28 Agosto 1963, Dylan e Baez si esibirono sui gradini del Lincoln Memorial (…) Che una coppia di cantautori ventiduenni potesse rappresentare un collegamento tra Martin Luther King e il centro del potere della cultura americana, era un segno dei tempi”.
Come sottolineato da Harry Belafonte: “Eravamo là per comunicare qualcosa di molto urgente al centro del potere e della cultura che era bianco. Con la loro partecipazione Joan e Bob dimostrarono che la libertà e la giustizia sono questioni universali che devono interessare le persone coscienziose di ogni colore”.
Queste parole, tratte da “Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra” (il libro di Elijah Wald al quale si è ispirata la sceneggiatura di A complete unknown), oggi sarebbero considerate (quasi) scontate, ma negli anni ’50 e ’60 dell’America post Seconda guerra mondiale anche gli artisti, i folksinger spesso usciti dall’apprendistato del Greenwich Village, nonostante il loro impegno pacifista e anti-razziale, per il solo fatto di essere di pelle bianca, erano guardati con sospetto dagli attivisti afroamericani in lotta per la conquista dei diritti civili nella società statunitense.
Ancora dal libro di Wald: “Come disse Van Ronk: Dylan, nonostante le sue capacità di autore, rientrava ampiamente nel campo dei neotradizionalisti. Non aveva una voce aggraziata; faceva del suo meglio per assomigliare a Woody Guthrie o a qualcuno dell’Oklahoma o delle campagne del Sud”.
Wald nel suo libro racconta il successo delle canzoni di Dylan, anche indipendentemente dall’interpretazione del loro stesso autore, per esempio parlando di “Blowin’ in the wind”:
“Anche il carattere politico del brano (…) esprimeva un senso di preoccupazione e di consapevolezza delle ingiustizie, ma non era una chiamata alle armi, e , anche se fu accolto da milioni di ascoltatori che ritenevano il movimento per i diritti civili una causa nobile e storica, la gran parte di essi non partecipava alle marce o ai raduni, né frequentava persone di colore. Così come c’erano fan integralisti del folk che cercavano e apprezzavano gli stili tradizionali più autentici, c’erano americani bianchi che partecipavano alla lotta e in alcuni casi venivano incarcerati, picchiati e uccisi, ma la grande maggioranza era composta da un gruppo che simpatizzava con la causa ma preferiva restare nelle proprie comunità circondato di simili”.
Insomma: nonostante il messaggio universalista, ammantato dal pensiero del socialismo idealista, i recinti musicali delle due comunità dal diverso colore della pelle erano ancora ben definiti e di conseguenza era definito anche il pubblico che riceveva il messaggio: una era la corrente delle ballate folk e l’altra quella blues nella tradizione dei canti degli schiavi africani deportati in America.
Mentre il rock’n’roll di Elvis Presley e dei suoi epigoni incrociando il country gospel e il ritmo blues spiritual, elettrificati gli strumenti e accelerato il ritmo, rendendolo un ballabile, esasperato feticcio per la comunità dei teeneger, attraverso il suono amplificato dei jukeboxes, era un fenomeno generazionale universalmente riconosciuto, il folk marchio di fabbrica del Greenwich Village, era vissuto, nonostante l’aspetto “eversivo” dei suoi interpreti, in “purezza”, nella sua tradizione prevalentemente bianca e quindi in qualche modo legata al potere politico, uscito vincitore dalla Guerra Civile ottocentesca e che non aveva ancora risolto la piaga razzista.
È forse il rimanere ancorati a questa purezza “acustica” che viene messo in discussione dalla famosa decisione “elettrica” di Bob Dylan nel fatale Festival di Newport del 1965, che fu lo spartiacque artistico e personale tra il ragazzo del Minnesota e l’allora icona della divulgazione folk Pete Seeger: la svolta stilistica musicale di Dylan avrebbe da quel dì, annullato la diffidenza antica tra la comunità bianca e quella nera.
Una carriera lunghissima (morirà all’età di 94 anni nel 2014) Pete Seeger ha attraversato quasi 80 anni di storia americana sia sociale che musicale.
Come accennato nella puntata precedente, incontra Guthrie alla fine degli anni ’30 ed è tra gli iniziatori dell’attività pubblica del Greenwich Village e, grazie alla frequentazione e collaborazione con la famiglia Lomax (musicologi e ricercatori, benemeriti titolari di un catalogo di registrazioni di testimonianze sonore di canti popolari, per lo più tramandati oralmente, che altrimenti si sarebbero persi nella memoria generazionale), Seeger avvia una carriera di divulgazione soprattutto negli ambienti universitari, dotato oltre a un timbro vocale nitido anche di una grande capacità di affabulazione.
Pur non essendo particolarmente portato alla spiritualità, il suo repertorio è colmo di brani di argomento religioso di diretta derivazione gospel e altrettanti sono i canti che si rifanno a diverse culture: le irish song (retaggio dei naviganti che per primi approdarono sulle coste settentrionali atlantiche), il klezmer e l’yiddish ebraici, i ritmi centroamericani. Uno splendido e trascinante patchwork in cui non mancavano sue composizioni inedite.
Durante gli anni della guerra mondiale, mentre si “accasa” con Toshi Aline Otha, in una lunga vita coniugale fino alla morte di lei nel 2013, è front man degli Almanac Singers, già impegnati nel sostenere le lotte sindacali operaie al porto di New York. Alla fine degli anni ’40 fa “il botto” di celebrità con il fantastico gruppo dei Weavers, un quartetto vocale e strumentale dove infonde tutta la sua conoscenza dei canti popolari frutto delle ricerche con i Lomax.
Il grande successo negli ambienti progressisti, quelli della sinistra radicale, scatena l’interesse dell’FBI che lo segnala come artista target a tutti gli effetti durante la caccia alle streghe istituita dal senatore Joseph McCarthy: effettivamente, negli anni ’40, Seeger aveva frequentato non proprio nascostamente gli ambienti dei Giovani Comunisti Americani, accusati di propaganda moscovita.
Per queste ragioni, dopo aver frequentato diversi tribunali e sopportato censure radiofoniche, nel 1953, si vede costretto a sciogliere il gruppo. Ma il suo attivismo (almeno quello) non si arresta e continua la sua opera di scouting al Greenwich Village accogliendo nuovi giovani folksinger: tra i tanti, Peter Paul & Mary e appunto Bob Dylan e Joan Baez.
Nella sua lunga carriera scavallerà i due millenni sempre in pista, presente in qualunque luogo del pianeta dove poter sostenere con la sua musica, le lotte ambientaliste, quelle pacifiste e contro i poteri politici più violenti e ingiusti, fino a viaggiare a sue spese nella Polonia del Generale Jaruzelski per sostenere le proteste di Solidarnosc contro la legge marziale. Prima di morire partecipa alle campagne elettorali democratiche per Barack Obama e avrà la soddisfazione di essere degnamente celebrato in vita dalle “Seeger Sessions” di Bruce Springsteen.
Pur non accettando mai il ruolo storico delle istituzioni religiose, sul suo attivismo giovanile comunista nel 2009 renderà pubblica la sua definitiva e personale autodafè: “In ogni caso oggi mi scuso per una serie di cose, come pensare che Stalin fosse semplicemente un guidatore duro e non un fuorviante estremamente crudele. Dovrei scusarmi per tutto questo? Penso di si!”.
E lo ribadisce in un’intervista rilasciata ad Antonio Lodetti su Il Giornale, sempre in quell’anno: “Vorrei un mondo senza miliardari ma non tornerei più nel Partito Comunista. Lenin disse: Abbiamo perso la Rivoluzione perché non siamo stati abbastanza feroci. E così lui e Stalin hanno cambiato metodo. Mi scuso di averli seguiti perché erano brutali e la violenza non va mai bene in nessun caso. Anch’io in America, però sono stato perseguitato per le mie idee”.
Pete Seeger ci lascia in eredità un’infinità di titoli di canzoni popolari: “We shall over come”, “Oh freedom”, “Kumbaya”, “Guantanamera”, “Wimoweh” (la versione autentica di “The lion sleep tonight”) e le sue “Where have all the flowers gone”, “Turn Turn Turn” lanciata dai Byrds (con il testo che arriva direttamente dall’Ecclesiaste biblico) e “If i had a hammer” (che in Italia lanciò il twist di una giovanissima Rita Pavone)
La prossima puntata di questa serie di articoli, sarà dedicata a Johnny Cash e Joan Baez.
Guida all’ascolto:
The Weavers “Reunion at Carnegie Hall 1963” cd live;
Pete Seeger “The Essential” Columbia/Legacy 2cd (edizione 2013).
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