Nel Fiscal monitor del Fondo monetario internazionale diffuso mercoledì si legge che “le economie avanzate con popolazioni in invecchiamento dovrebbero rivedere le priorità di spesa, promuovere riforme delle pensioni e della sanità, eliminare incentivi fiscali inefficienti, ampliare la base imponibile e perseguire politiche attive del lavoro per la loro forza lavoro in età lavorativa, inclusi i migranti”.
Ai Governi viene altresì consigliato di indirizzare l’azione politica avendo come obiettivo la necessità di reperire risorse che servano per finanziare l’ineludibile crescita della spesa per la difesa. Ogni Governo dovrà individuare un mix di aumenti fiscali e tagli alla spesa in linea con lo spazio fiscale disponibile nei propri conti.
Per l’Italia, alle prese con la carenza di risorse, il suggerimento è quello di abolire la flat tax sul lavoro autonomo. Questo suggerimento sembra basato sull’idea secondo cui la flat tax sia “semplicemente” un’agevolazione concessa ai lavoratori autonomi. Questa visione, se confermata, si presta a essere interpretata come riduttiva e incapace di cogliere le caratteristiche del lavoro autonomo in Italia. Si avrebbe di fatto una conferma di come la stagione del Covid sia alle spalle, ma non abbia insegnato nulla.
Durante le fasi acute del lockdown fu evidente a tutti come l’anello debole del tessuto economico italiano fossero proprio le partite Iva. Le chiusure, le limitazioni alla circolazione, il distanziamento sociale (sanitario) avevano mostrato quanto fosse debole questo segmento o, comunque, la maggioranza di esso. Ci si affrettava da più parti a proporre e varare provvedimenti a sostegno di questa categoria di lavoratori. In questo scenario la proposta di abolire la flat tax pare una nota stonata se non viene ben delineata. Il rischio è che venga cavalcata come obiettivo-bandiera da perseguire in chiave demagogica.
In primo luogo, andrebbe chiarita la collocazione di coloro che adottano questo sistema di tassazione. Se la risposta vede gli aderenti inseriti a pieno titolo nella categoria del ceto medio, allora l’abolizione pare connotarsi come una sanzione che finisce per considerarla solo come un’agevolazione.
Una diversa interpretazione di questa visione, infatti, potrebbe essere quella che considera la flat tax come uno strumento che riconosce, a questa categoria di lavoratori, un premio per il rischio di essere autonomi e per la mancanza di tutele paragonabili a quelle previste per il lavoro dipendente: cassa integrazione, incentivi all’esodo, copertura per i casi di malattie invalidanti, ecc. Se queste considerazioni sono vere, allora l’idea che si tratta di una mera agevolazione diventa una visione semplicistica.
Sicuramente correttivi sono possibili, ma altrettanto non può non riconoscersi la sua validità sociale che rende più equo il sistema. D’altronde nel considerare il carico fiscale viene trascurato che i costi sostenuti dagli aderenti alla flat tax scontano comunque il pagamento dell’Iva che non viene detratta, ma finisce per rimanere a carico dei lavoratori autonomi, al pari di quanto accade per i consumatori finali, andando a innalzare il carico fiscale a cui gli aderenti alla flat tax sono assoggettati. Altrettanto non viene data attenzione alla maggiore capacità di spesa che hanno i beneficiari della tassa piatta e, dunque, agli effetti che ciò induce nel sistema economico.
Se queste considerazioni sono vere, più che una lotta senza quartiere alla flat tax andrebbe promossa una politica che preveda anche l’efficientamento della spesa pubblica pari a quella promossa sul versante energetico.
Probabilmente la visione del Fmi è più pragmatica e ritiene prioritario l’obiettivo di accompagnare, senza indugiare, l’incremento della spesa per la difesa. Non siamo nella fase del varo di un’economia di guerra, ma sicuramente lo scenario geopolitico è più complesso di quello che si percepisce. Questa visione non ci piace, preferendo stimolare il dibattito affinché si agisca dal lato della spesa pubblica.
Questo non significa che occorre agire riducendo la spesa sanitaria o sociale, ma che occorre mettere mano sul versante della Pubblica amministrazione affinché i processi decisionali e quelli di spesa trovino un nuovo paradigma maggiormente rivolto all’efficientemente della spesa pubblica.
In questo scenario è quanto mai auspicabile che il dibattito politico interno nel considerare il suggerimento del Fondo monetario dia segnali di maturità e non finisca per alimentare lo scontro tra guelfi e ghibellini e promuova le riforme utili a reperire risorse anche attraverso il risparmio dando maggiore efficienza alla spesa pubblica.
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