Test di accesso a medicina: una vera e propria rivoluzione copernicana, con molte ombre e qualche luce, molto poca per la verità. Dopo il Senato, anche l’aula della Camera ha approvato la legge delega al Governo per il superamento del modello precedente e il provvedimento è diventato legge, sia pure in attesa dei decreti attuativi indispensabili per la sua applicazione, dal momento che sono ancora molte le cose da chiarire.
E probabilmente non sarà facile farlo, anche se una commissione è già da tempo allo studio. L’unica cosa chiara è che verrà abolito l’attuale test di accesso a favore di un semestre-filtro con esami caratterizzanti, i cui risultati saranno riconosciuti per altri percorsi formativi alternativi.
L’attuale provvedimento è composto da tre articoli e prima di provare a darne una valutazione, sia pure sommaria, vale la pena ripercorrerne i contenuti.
Come sempre, il primo articolo chiarisce finalità e principi generali del provvedimento e afferma: “La finalità indicata è quella del potenziamento del Servizio sanitario nazionale in termini di numero di medici chirurghi, odontoiatri e medici veterinari, da stabilire sulla base delle esigenze del SSN medesimo, nonché della qualità della loro formazione…”. Tre punti chiave contenuti in poche righe: il SSN stabilisce di quanti medici ha bisogno e qual è il livello di formazione atteso.
Il secondo articolo, molto più ampio e articolato, delega il governo la revisione delle modalità di accesso ai corsi di laurea magistrale in medicina e chirurgia, in odontoiatria e protesi dentaria e in medicina veterinaria. Fissa una data, 12 mesi, e stabilisce alcuni criteri, per la verità non del tutto chiari nella loro concreta applicabilità, rimandando al rispetto degli articoli 32 e 34 della Costituzione. L’articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, mentre l’articolo 34 ha un incipit ben noto: “La scuola è aperta a tutti…”.
Al comma seguente appare come affermazione perentoria: “Prevedere che l’iscrizione al primo semestre dei corsi di laurea magistrale in medicina e chirurgia, in odontoiatria e protesi dentaria e in medicina veterinaria sia libera”. Una libertà comunque condizionata dalla disponibilità dei posti dichiarata dalle università.
Nel passaggio successivo la norma delega al governo il compito di individuare le discipline qualificanti che saranno oggetto di insegnamento nel primo semestre dei corsi di studio di area biomedica, sanitaria, farmaceutica e veterinaria, garantendo per ciascuno di essi programmi uniformi e coordinati, con un numero complessivo di crediti formativi universitari (CFU) stabilito a livello nazionale. In genere ogni semestre ha 30 crediti, 60 per ogni anno di corso.
Le difficoltà poste da questo comma sono tutt’altro che irrilevanti. Dato per scontato che l’accordo sulle discipline di base potrà essere trovato con una certa facilità, molto meno ovvio risulta l’accordo sui programmi, sulla loro estensione e profondità, che dovrà diventare oggetto di una valutazione unica per tutti gli aspiranti medici, dentisti e veterinari. L’ammissione al secondo semestre, infatti, è subordinata al conseguimento di tutti i CFU stabiliti per gli esami di profitto del primo semestre “svolti secondo standard uniformi”, perché da questo dipenderà la collocazione in posizione utile nella graduatoria di merito nazionale.
Due quindi gli ostacoli da dirimere con i prossimi decreti attuativi: chiarire cosa si debba intendere per “standard uniformi” e soprattutto quale sarà il break point della graduatoria nazionale. Il che equivale a definire chi entrerà realmente a medicina, odontoiatria o veterinaria e chi resterà fuori.
Come è stato ripetutamente detto: il numero chiuso non è stato abolito, è solo cambiato il meccanismo della selezione. L’espressione: “posizione utile” però va chiarita in base al numero di medici, odontoiatri e veterinari attesi anno per anno, secondo le indicazioni fornite dal SSN e dalla potenzialità ricettivo-formativa delle università.
Le università, dal canto loro, potrebbero anche potenziare le loro capacità ricettive, ma sempre e solo nel rispetto di standard innovativi relativi alla qualità della formazione. Anche questo passaggio non è scevro di difficoltà interpretative, dal momento che, ad esempio, medicina e odontoiatria debbono prevedere una formazione clinica a forte impatto relazionale e strutture cliniche adeguate al raggiungimento di competenze non solo teoriche.
Il sistema formativo del futuro medico include, già oggi, un numero considerevoli di crediti da acquisire nelle strutture clinico–universitarie e ospedaliere di alta qualità. Rinunziare a questo aspetto della loro formazione significa avere un personale che non sarà affatto in grado di tutelare la salute come diritto fondamentale dei singoli e come interesse della comunità.
Proprio per questo sono necessari tutori clinici, competenti e disponibili, in numero adeguato, per garantire l’acquisizione delle competenze necessarie. Dal canto loro gli studenti che non avranno raggiunto una posizione utile nella famosa graduatoria nazionale, vedranno comunque riconosciuti i crediti acquisiti con le prove d’esame, purché abbiano raggiunto tutti i crediti previsti. Potranno continuare gli studi in un altro corso di laurea, per cui avranno già manifestato una loro seconda opzione.
Anche il passaggio successivo pone dei criteri molto precisi ai prossimi decreti attuativi, soprattutto per il corso di laurea in medicina: al numero degli studenti che si iscriveranno a medicina deve corrispondere un numero adeguato di posti nelle scuole di specializzazione. Perché il ciclo degli studi del futuro medico include la sua specializzazione e ha una durata media di almeno dieci anni.
Giudicare questa legge senza sapere quale sarà il numero di medici, odontoiatrie veterinari, che il SSN definirà come gold standard e come le università fisseranno la propria capacità ricettivo-formativa è molto difficile. La vera libertà degli studenti sarà sempre e solo quella di studiare il più possibile nel miglior modo possibile per superare una selezione, che conserva comunque un elevato grado di competitività.
Probabilmente utilizzeranno la loro libertà iniziale iscrivendosi in quelle università in cui ritengono che potranno ottenere la migliore preparazione possibile per collocarsi in posizione utile nella graduatoria nazionale. E le università dal canto loro dovranno garantire agli iscritti al primo semestre la miglior qualità formativa possibile, e saranno in competizione tra di loro, per essere sicure che gli studenti iscritti nella loro sede supereranno nel miglior modo possibile questo filtro selettivo.
La sfida oggi come ieri resta quella di saper insegnare e quella di saper imparare nella classica dialettica della relazione professore-studente. Se il sistema funzionerà avremo guadagnato una migliore classe medica, altrimenti sarà stato l’ennesimo esperimento pasticciato e confuso. Non basta aver cambiato la legge; occorre, come sempre, cambiare stile e modo di affrontare la grande avventura dello studio. Nella speranza che i ricorsi non soffochino anche questo tentativo di aggiornamento e di miglioramento nelle università.
I nodi da sciogliere sono davvero ancora tanti e non riguardano solo gli studenti. Riguardano i docenti, le modalità di insegnamento e di verifica, le risorse disponibili e le strutture ricettive. È un sistema che deve cambiare e deve cambiare all’unisono in tutta Italia, cosa tutt’altro che facile e scontata. E ci vorrà tempo, se non si vuole banalizzare questo tentativo di cambiamento del sistema universitario, coraggioso anche se non del tutto condivisibile, almeno sulla carta. Perché il vero banco di prova saranno i fatti e per quelli occorrerà aspettare ancora un po’ di tempo: vale la pena definire bene, chiaramente, tutti i nodi che emergono dalla lettura del testo di legge delega. Servono i decreti attuativi… ma serve anche capire come il SSN fisserà il numero dei medici di cui ha bisogno e come le università definiranno la loro capacità ricettivo formativa. Agli uni e agli altri va chiesta trasparenza e sostenibilità reale.
Infine bisogna essere realisti: Serviranno almeno 10 anni per capire se avremo ottenuto medici migliori o no.
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