“Quando suonammo al Madison Square Garden con il pubblico in piedi che ci acclamava ero perfettamente consapevole di come, durante il nostro ultimo tour con Bob Dylan nel 1966 quello stesso pubblico ci aveva fischiato ogni sera. In Europa, in Australia e in Nord America condannavano quella musica che facevamo insieme. Adesso eravamo qui, suonando in modo diretto e duro le canzoni di Bob, le stesse di allora, e il mondo ci stava accettando a braccia aperte. Non ci eravamo arresi. Non ci eravamo fermati. Fu il mondo a cambiare atteggiamento. Avevamo combattuto una buona battaglia nel 66, ma vincemmo la guerra nel 74”. Così Robbie Robertson, leader e fondatore di The Band, ricorda quell’esperienza unica e travolgente che fu accettare negli anni 60 la sfida che Bob Dylan aveva chiesto loro: portare le sue canzoni da folksinger a un livello superiore, quello delle a nuova svolta elettrica che stava incendiando il mondo. Ci volle del tempo per capire che stavano cambiando il mondo della musica, ma alla fine avevano avuto ragione loro.
Per un gruppo di ragazzini abituati a suonare nelle peggiori roadhouse dal Canada al Texas, fu un cambiamento epocale adattarsi a quanto il cantautore chiedeva loro. Ma Bob Dylan, dopo averli ascoltati una volta solo, aveva capito che se c’era qualcuno che poteva farlo erano loro: Levon Helm, Rick Danko, Richard Manuel, Garth Hudson e lui, il chitarrista, Robbie Robertson.
“The Band proveniva da un lato completamente diverso del percorso”, disse una volta. “Con gli Hawks, suonavamo in bar tosti, non nei caffè per poeti e intellettuali. Non conoscevamo la musica folk. Poi arriva questo ragazzo, il re dei cantanti folk, con questa idea audace per un esperimento”. Lui, un po’ come Gesù con gli apostoli, li scelse e tanto bastò. Il mondo sarebbe cambiato.
Piuttosto che ricordare come reagivano le persone, si pensi a cosa le ha fatte reagire in quel modo: una band più agguerrita di quanto lo fossero stati i Beatles quando erano tornati da Amburgo, capace di cambiare e di seguire Dylan nei suoi tunnel di anfetamine. Le registrazioni dal vivo del 1966 catturano una band che esplode in maniera inconcepibile. Sembravano selvaggi. E lo erano. Avevano colto l’essenza stessa di cosa fosse il rock’n’roll e lo avevano spinto oltre ogni possibile confine. Il loro esempio avrebbe illuminato il percorso della musica rock fino ai giorni nostri.
Ritiratisi a Woodstock, dove era andato a vivere il loro datore di lavoro a leccarsi le ferite di quel devastante tour, scoprirono un altro mondo, sempre grazie all’esempio illuminato di lui. Fecero un viaggio nel tempo, in un’America dimenticata, quella della promessa ancora intera, quella dei Padri Pellegrini, fatta di storie assurde di sopravvivenza e racconti biblici. Era l’estate dell’amore e il mondo si colorava dei colori psichedelici dei figli dei fiori. Loro indossarono austeri completi neri e, come disse Robertson, “se il mondo stava svoltando a sinistra, noi andammo a destra”.
Di nuovo, il percorso intrapreso avrebbe influenzato il futuro della musica rock. Eric Clapton, allora membro del gruppo rock più di successo al mondo, i Cream, si presentò umilmente nella loro casetta rosa a Woodstock chiedendo di essere ammesso nel gruppo. Che tutti chiamavano semplicemente “la banda”, The Band. Perché loro erano la band per definizione.
Quelli che si erano chiamati The Hawaks scoprirono chi erano, scoprirono di poter scrivere canzoni e di produrre un suono che nessuno aveva. Cantavano canzoni – in gran parte scritte da Robertson – che catturavano il sogno di ciò che l’America era, è e potrebbe essere. Anche i titoli – The Weight, Up on Cripple Creek – parlavano di cose che esistevano da sempre.
Il loro segreto era raccogliere quello che sentivano nell’aria. Dopo aver visitato ogni angolo sperduto dell’America, Robbie Robertson si era impossessato dello spirito dell’America stessa. Per un canadese come lui, pre metà nativo americano e per metà ebreo, sembrava un paradosso, ma il fatto di poter contare su un autentico spirito del sud degli States come Levon Helm, gli fornì la mappa che stava cercando. Nelle sue canzoni si poteva sentire la voce dei ribelli confederati sconfitti e umiliati, degli antichi predicatori inseguiti dal demonio, dei contadini che sputavano sangue per portare a casa qualcosa da mangiare. Erano un gruppo rock, ma appartenevano alla classe operaia, agli ultimi, ai più disagiati. E la gente lo capii e li portò in vetta alle cime del mondo.
Prima gruppo rock ad apparire nel 1971 sulla copertina della prestigiosa rivista Time, riempivano i teatri e gli stadi. Ma c’è sempre un prezzo da pagare: “La vita on the road è una maledetta vita impossibile” dice Robertson in una scena del film The last waltz. Richard Manuel, pianista e voce principale del gruppo, era diventato un alcolista all’ultimo stadio; Levon Helm occasionalmente si faceva di eroina; Rick Danko di cocaina. Il motivo per cui Robertson decise di porre fine alla storia del gruppo fu proprio questo: sentiva avvicinarsi l’ombra glaciale della morte.
Non agì però con grande sagacia. A differenza di quanto si è a lungo detto, che Robertson si fosse accreditato i diritti di canzoni che erano state scritte insieme agli altri membri del gruppo (ognuno di loro aveva contrattualmente una percentuale dei diritti che uno a uno, tranne Hudson e Helm gli vendettero per coprire i debiti accumulati con le droghe), il chitarrista si accordò segretamente con la Warner Bros per un concerto da farne un film che doveva essere obbligatoriamente l’ultimo della band. Avrebbero potuto continuare a incidere dischi, ma Helm si rifiutò categoricamente. The last waltz fu la celebrazione non solo di The Band ma di una intera generazione: Van Morrison, Neil Young, Bob Dylan, Joni Mitchell, Eric Clapton, si produssero in alcune delle loro più grandi esibizioni di sempre.
The Band senza Robertson sarebbe risorta negli anni 80, ma fu evidente che mancava il catalizzatore principale, Robertson. Il quale avrebbe inciso pochi dischi in cui anche lì era evidente come fosse stata la somma delle parti a rendere splendente il suo songwriting.
La maggior parte del suo lavoro dopo il 1977 fu nel cinema, con diverse colonne sonore e quando pubblicò album da solista seguirono la sua strada: nessuno che avesse ascoltato il canto aborigeno canadese di Peyote Healing da Contact from the Underworld of Redboy del 1998 lo avrebbe associato con il tizio che aveva scritto The Weight. Con il passare degli anni, si videro segni che voleva far rivivere la sua parte del passato. Sebbene il suo ultimo lavoro registrato sia stato la colonna sonora del prossimo film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, l’ultimo album solista di Robertson, Sinematic del 2019, venne abbinato a un documentario, Once Were Brothers: Robbie Robertson and The Band. Il film condivideva il titolo con la seconda traccia di Sinematic, rendendo chiaro di quali fratelli cantava Robertson: “Quando la luce si spegne / Andremo per la nostra strada / Niente qui tranne l’oscurità / Nessun motivo per restare”.
Solo Garth Hudson sopravvive ancora a The Band.
La loro storia, i loro talenti, la loro importanza, erano tutti eccezionali. Così erano le loro tensioni e tragedie.
A volte i gruppi rock sono accompagnati da segugi infernali. I segugi infernali di The Band si sono presi il loro tempo per fare il loro lavoro, ma questo ha permesso loro di avvicinare il purgatorio. Manuel si impiccò nel 1986; Danko morì nel 1999; Helm nel 2012. E oggi Robertson.
È calato il sipario sull’ultimo valzer. Eppure i successi e l’eredità di The Band restano immortali.
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