Non solo caso: il sopravvissuto diventa testimone. La vita che resta chiede senso e responsabilità, oltre ogni spiegazione.
C’è sempre un nome, un volto, una storia che emerge dal buio. È successo anche stavolta: un aereo precipita in India, poco dopo il decollo, si spezza, brucia, e tra le fiamme e le lamiere emerge un uomo. È l’unico sopravvissuto.
Era seduto all’altezza dell’ala e si è trovato fuori, vivo, in un campo di detriti e silenzio. Come può accadere?
La cronaca cerca risposte: errori di atterraggio, condizioni meteo, pista scivolosa. Tutto giusto, tutto logico. Ma non basta. Non spiega perché proprio lui. Perché non il passeggero accanto? Perché non l’infermiera con il bambino? Non c’è algoritmo per questo. C’è solo l’irruzione del mistero.
Il sopravvissuto – non un eroe, non un miracolato, ma un uomo vivo tra i morti – porta con sé una domanda che ci brucia dentro: perché io sono ancora qui?
Non è una domanda da superstite, ma da vivente. Chi ha sfiorato la morte, chi l’ha vista, chi è stato scelto – senza motivo apparente – per restare, sa che la vita non è un meccanismo perfetto, ma un enigma che ci include e ci supera.
Scriveva Rainer Maria Rilke: “Ogni angelo è tremendo”. Il contatto con ciò che ci supera, con ciò che resta quando tutto il resto è cenere, ci mette davanti a una grande vertigine. L’angelo della vita è anche l’angelo del giudizio, che ci costringe a chiederci: che cosa resta davvero di me?
Chi resta ha il compito di non dimenticare. Di non tradire ciò che ha visto. Di non ridurre tutto a caso o sfortuna. C’è qualcosa, forse qualcuno, che sfiora il tempo e lo piega a un senso più alto.
Forse è questo il destino dei sopravvissuti: testimoniare che non siamo solo eventi, che non siamo solo materia in movimento. Che in ogni storia c’è un varco verso l’eterno.
Kafka scriveva: “Chi conserva la capacità di vedere la bellezza non invecchierà mai”. Forse anche sopravvivere è questo: non solo salvarsi dal disastro, ma custodire lo sguardo che ha visto l’invisibile, che ha intravisto la bellezza nascosta nell’ombra.
L’uomo che esce dal Boeing spezzato non ha risposte. Ma è la risposta. Una vita viva, che cammina tra le fiamme spente, dice più di mille analisi. È la voce muta di un appello che riguarda tutti noi. Non per spaventarci, ma per svegliarci.
Eugenio Montale parlava della “scintilla” che può aprire una breccia nella realtà opaca. Quel sopravvissuto è una scintilla. “Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non vogliamo vivere senza senso. Non vogliamo ridurre il vivere a un esperimento tecnico o biologico.
La domanda non è perché è successo, ma: che cosa significa per me che non ero su quell’aereo? Che cosa mi è chiesto, oggi, di salvare?
“Tu non sei per la morte, ma per la vita” scriveva Victor Hugo. Ogni giorno in cui apriamo gli occhi e ci alziamo è un atto di resistenza contro il nulla. E un invito: vivere non è restare in piedi, ma restare destati.
Forse non basta sapere perché si vive. Bisogna anche scegliere per chi. E per che cosa. Ogni sopravvissuto è un’icona della responsabilità, della chiamata. Non è più solo uno che è scampato: è uno che è stato mandato.
Così anche noi, se ci fermiamo un istante, possiamo riconoscerci nel suo volto, nel suo spaesamento. Ogni giorno ci è dato come un atterraggio difficile: non sappiamo se sarà l’ultimo. Ma se atterriamo vivi, se ci svegliamo ancora una volta, forse è perché siamo stati scelti. Per qualcosa. Per qualcuno.
Non c’è spiegazione razionale che tenga. Solo una parola ci resta: gratitudine. E una responsabilità da vivere: non sprecare il dono che siamo.