Ingroia accusa Giammanco: “Controllato dalla malapolitica, tradì Borsellino”. Rivelazioni su Contrada e indagini: “La procura di Palermo coprì i mandanti"
Antonio Ingroia, ex magistrato e stretto collaboratore di Paolo Borsellino, rilancia accuse choc nel libro “Traditi, le mie verità sui misteri di Palermo e sulla magistratura” (Piemme), scritto con Massimo Giletti; al centro delle sue rivelazioni c’è un collega che, secondo lui, tradì il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio: si tratta di Pietro Giammanco, ex procuratore capo di Palermo, descritto come un “uomo di Lima” e – come afferma Ingroia – “controllato dalla malapolitica siciliana”.
La ricostruzione parte da una confessione dello stesso Borsellino, il quale – poco prima di morire – confidò ai colleghi di Marsala, Alessandra Camassa e Massimo Russo, di sentirsi tradito da un amico e oggi Ingroia, identifica quell’amico in Giammanco, già sospettato per il ruolo di “regista del fuoco amico” contro Falcone e Borsellino, accusato cioè di aver organizzato un sistema di emarginazione e sabotaggio delle indagini più scomode; l’ex sostituto procuratore ricorda il giorno dopo la strage del 19 luglio 1992, quando il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra lo convocò per raccogliere informazioni su Borsellino, e lui gli spiegò che il giudice stava indagando su Bruno Contrada – poliziotto ritenuto vicino ai servizi segreti – grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Mutolo.
Aggiunge anche un dettaglio inquietante: durante un interrogatorio di Mutolo, Borsellino fu fatto attendere al Viminale in una stanza dove incontrò proprio Contrada; questo – racconta Ingroia – lo salutò con tono allusivo, dicendogli che sapeva quanto lui avesse indagato sul suo conto ma nonostante questo contesto ambiguo, Tinebra affidò proprio a Contrada le indagini sulla strage di via D’Amelio, una scelta che per Ingroia rappresenta il paradigma del tradimento istituzionale e l’inizio di una lunga serie di depistaggi.
Ingroia: il rapporto mafia-appalti, il tradimento e le indagini insoffocate
Ingroia svela che Borsellino, già ai tempi in cui era procuratore a Marsala, stava seguendo un’indagine considerata strategica sul rapporto tra mafia e appalti pubblici, basata su un documento che, secondo lui, la procura di Palermo avrebbe tentato di insabbiare e fu il capitano De Donno – al tempo in servizio – ad avvisarli che la procura guidata da Giammanco non era affidabile e che serviva l’intervento diretto di Borsellino; Ingroia racconta che Falcone si era già interessato a quel dossier prima di essere ucciso, e che Borsellino – dopo aver letto i suoi diari – gli chiese di organizzare un incontro riservato con Antonio Scarpinato, magistrato considerato al di fuori della cerchia di Giammanco, per fare luce su quella vicenda intricata.
L’incontro – suppone Ingroia – avvenne, anche se nessuno dei due gliene parlò mai apertamente, un silenzio che secondo lui rafforza l’idea che Borsellino volesse proteggersi dai sospetti su alcuni colleghi considerati compromessi; Ingroia afferma poi che Giammanco non si limitò a ostacolare le indagini, ma fu il fulcro di un sistema che mortificò Falcone e Borsellino, isolandoli, negando loro strumenti e risorse, lasciandoli soli nella trincea più pericolosa.
Paolo – spiega Ingroia – era convinto che Giammanco fosse legato alla malapolitica e in particolare a Salvo Lima, il politico democristiano ucciso da Cosa Nostra nel 1992 e ritenuto il principale tramite tra mafia e Stato; il libro denuncia anche l’omertà interna della magistratura palermitana dopo le stragi in quanto, secondo Ingroia, i veri traditi furono sì Falcone e Borsellino, ma anche i cittadini, perché i loro “fedelissimi”, quelli che avrebbero dovuto custodire la verità, l’avrebbero invece nascosta per proteggere interessi sporchi.
L’accusa finale riguarda il depistaggio delle indagini su Bruno Contrada, che – nonostante i sospetti e poi la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa – fu posto a capo delle investigazioni: per Ingroia, questa fu una scelta folle, il segno tangibile che la procura cercava di affidare la verità a chi poteva meglio insabbiarla.