Il film "Aragoste a Manatthan" demolisce la poesia del cibo impiattato a perfezione per fare spazio alla verità di chi lavora nelle cucine dei ristoranti
Al The Grill di New York, immaginario ristorante di pesce a Manhattan, c’è sempre molto da fare. Dietro ai piatti curati e ben serviti davanti agli occhi strabiliati dei clienti, lavora un nutrito gruppo di persone che corre a ritmi frenetici. Si parte con la preparazione, qualche ora prima della “messa in scena”, con ritmi più umani, sprazzi di amicizia, battute da spogliatoio. Fino a quando non arriva il momento di cucinare. Il ritmo cresce con le comande, il tempo si comprime e lo spazio diventa teatro delle mille contraddizioni umane di chi ci lavora.
Continuo a pensare che i traduttori dei titoli dei film italiani abbiano davvero ancora molto da imparare dai più talentosi copywriter pubblicitari. Me li immagino, davanti a un computer, a cercare suggestive parole chiave basate su algoritmi di ricerca, mode contemporanee o popolari titoli di successo. Se guardo indietro vedo molta fuffa e tante scelte controproducenti, che portano al cinema un pubblico carico di aspettative che spesso vengono disilluse.
Aragoste a Manhattan cerca di appropriarsi del fascino della Grande Mela e dei sogni di riccanza per illuderci di accompagnarci in un viaggio sofisticato tra i più titolati ristoranti newyorkesi. Ma La Cocina (è questo il titolo originale) ci porta da tutt’altra parte. Tra le claustrofobiche e puzzolenti pareti della cucina di un ristorante.
Al piano sopra intuiamo la sala, finemente arredata, pronta ad accogliere gli avventori in cerca della perfezione del gusto e dell’esperienza da raccontare. Al piano sotto, nascosto agli occhi della coscienza, vive la cucina, brulicante di umori, luogo infernale di creazione. Nel seminterrato volano piatti, grida e insulti. Volano le mani, volano le persone e le loro storie di fatica quotidiana ed esistenziale. La Cocina è un mondo a parte, di umanità sofferente, che cova razzismo competitivo tra mani di talento, ritmi da corridore e soddisfazioni invisibili ai più.
Alonso Ruizpalacios, abile regista, attore e sceneggiatore messicano, cancella il colore dei piatti, regalandoci un bianco e nero intenso che indaga il disagio della cucina, dove si parla il linguaggio della fatica e dell’esclusione, con truppe di irregolari arruolate dall’esercito degli ispanici.
In due ore e un tot, con un tocco crudemente autoriale, Ruizpalacios demolisce la poesia del cibo impiattato a perfezione, immortalato in miliardi di post estetici in tutto il mondo, per fare spazio alla verità degli uomini e delle donne che lavorano a basso costo, in equilibrio precario tra il fallimento di sé e della propria storia da raccontare. Dietro a ogni bellezza c’è il combattimento della vita.
Nella Cocina di Manhattan si lavora con ritmo intenso, appesantiti dallo zaino del dolore. Tra le stanze illuminate a neon si incrociano le ansie e la passione di un’umanità esperta di cucina, tra cuochi di talento, sous chef, camerieri e avidi proprietari, per cui conta solo il piatto che si appoggerà sul tavolo.
In gita nel retroscena del ristorante viviamo, con loro, il dramma di un aborto, i sospetti e le accuse di furto, i feroci e animati diverbi razziali, le ansie da prestazione e il dubbio che tutto questo sia solo il triste racconto di un brutto sogno che finirà. O che forse non è mai esistito.
Un bel film sulle gerarchie, sulle ingiustizie, sul disagio sociale, sulle guerre tra poveri e sul vero prezzo del menu di chi pasteggia allegramente nei “ristoranti” dei fortunati.
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