Quando si evoca il nome di Arnaldo Pomodoro, il grande scultore che ieri ci ha lasciati proprio alla vigilia dei suoi 99 anni, vengono in mente le tante opere che segnano in modalità fortemente iconica tante piazze o contesti pubblici in Italia e nel mondo.
Pomodoro è davanti al Palazzo dell’Onu di New York come nel cortile della Pigna in Vaticano, è a Lampedusa come davanti alla Farnesina, è a Los Angeles come sul lungomare della “sua” Pesaro (era nato infatti a Marciano di Romagna nel 1926). Sono lavori di grandi dimensioni, frutto di processi tecnici complessi, messi a punto nel minimo dettaglio e che custodiscono pur nel loro aspetto compiuto e perfetto una profonda memoria “materiale”.
Non si capisce Pomodoro, scultore dal linguaggio globale, se non si tiene conto di questa matrice artigianale che ha sempre coltivato e approfondito. La sua formazione pratica era stata, ad esempio, nel segno degli ossi di seppia, incisi secondo un’antica tecnica per farne stampi per fondere gioielli. Da quella pratica gli era scattata l’idea che con lo stesso procedimento se ne potessero ricavare sculture.
Sentite con che parole aveva espresso la sua ammirazione per quel materiale da cui aveva preso avvio la sua avventura artistica: “Lo scavare l’osso di seppia per ritrovare le venature suggerisce talvolta forme quasi magiche, con piccoli segni. E tu non hai fatto nulla ed è l’osso di seppia che ti regala un’immagine…”.
Nel Pomodoro scultore c’è quasi un senso di devozione per il materiale con il quale di volta in volta si trovava a lavorare. Per questo nella sua parabola artistica si era sempre premurato di circondarsi di persone dalla grande esperienza tecnica. Formatori in gesso, fonditori di bronzo, cesellatori, patinatori e ingegneri erano parte del suo atelier “aperto”, quasi co-autori della sue opere.
“I dialoghi con loro collocano Pomodoro al di là delle pratiche solitarie nello studio di quegli artisti che sono pienamente soddisfatti solo quando sono completamente soli, indisturbati, con i propri pensieri e sogni”, ha scritto la critica Sharon Hecker in uno studio dedicato “alla memoria materiale” dei lavori dell’artista. “Per Pomodoro, l’atto del fare è diventato uno spazio sociale di dialogo, discussione e convivialità da cui emergono le opere finali”.
È la stessa filosofia che lo ha portato già nel 1995 a dar vita alla Fondazione nominata sua erede universale. “Ho sempre sentito la necessità di un coinvolgimento concreto dal punto di vista sociale: uscire dal proprio studio, dove si lavora e si è protetti, non è una facoltà: è un dovere”, ha spiegato.
Così la Fondazione che porta il suo nome, funzionale naturalmente alla tutela della sua opera, ha in realtà una mission molto più ampia. Tra le priorità c’è l’impegno formativo, ad esempio attraverso i “laboratori di scultura” avviati nel 2007: chi vi partecipa utilizza gli stessi strumenti e le stesse tecniche di lavoro che utilizza Pomodoro nella sua pratica artistica. L’obiettivo è quello di approcciare e conoscere i materiali e “la loro memoria incorporata”. L’apprendimento pratico era poi finalizzato anche a restituire la consapevolezza che l’arte ha il suo alveo ideale nella “bottega”.
Dal 2006 la Fondazione ha istituito anche un premio per incoraggiare i giovani scultori. E l’attività espositiva della sede milanese in zona Navigli non riguarda solo le opere del fondatore, ma è aperta ad altri artisti.
Arnaldo Pomodoro ci ha lasciato tante sculture che affascinano con i loro misteriosi e intricati meccanismi interiori o con le loro superfici rilucenti. Ma ci ha lasciato anche come eredità morale quella di uno scultore, celebrato in tutto il mondo, capace di riconoscere che proprio dal successo gli derivava una responsabilità sociale: una lezione non da poco in un mondo dell’arte spesso così nevroticamente narcisista.
“Non ho mai creduto alle fondazioni che celebrano un solo artista come unicum”, ha detto. “L’artista è parte di un tessuto di cultura, il suo contributo attivo non può venire mai meno”.
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