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Home » Cultura » Arte » ARTE/ Bellini e Sodoma, così Cristo morto “attende” la Pietà celeste

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ARTE/ Bellini e Sodoma, così Cristo morto “attende” la Pietà celeste

Le ore che separano l’ultimo respiro di Gesù sulla croce dalla Sua resurrezione nel “Compianto” di Bellini e nel “Cristo morto” di Bazzi (Sodoma)

Tommaso Ricci
Pubblicato 18 Aprile 2025
Giovanni Bellini, "Compianto su Cristo morto" (1475 ca., particolare)

Giovanni Bellini, "Compianto su Cristo morto" (1475 ca., particolare)

Quelle afflitte ore che separano l’ultimo respiro di Gesù sulla croce dalla Sua resurrezione – l’inconcepibile e scandaloso tempo della morte di Dio – sono state enormemente dilatate dall’arte lungo i secoli, che in esse ha scavato uno spazio di muta contemplazione, dove la venerazione del Bello viene presa per mano dalla devozione religiosa e dalla riflessione profonda sul dramma dell’esistenza.


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“Della crudel morte de Cristo ogn’om pianga amaramente”: deposizioni, compianti, pietà, sono diverse angolature visuali dei momenti di intenso sconforto affettivo, di amorevole cura del corpo defunto, di intima commozione materna vissuti dopo le 15 di quel Venerdì Santo di oltre duemila anni fa a Gerusalemme, ma anche ovunque, sempre e da ciascuno nella storia dell’umanità.


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Nel Palazzo apostolico di Castelgandolfo due opere poste l’una di fronte all’altra, fino a settembre, riflettono questi sentimenti di raccolta e insondabile mestizia associandoli all’ammirazione per la fattura meravigliosa che i loro autori hanno saputo infondere in esse: sono il Compianto su Cristo morto (1475 ca.) di Giovanni Bellini, dei Musei Vaticani e appena restaurato nei suoi attivissimi laboratori, e il Cristo morto (1505) di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, opera di fatto ignota al grande pubblico, di proprietà della Venerabile Arciconfraternita di Santa Maria dell’Orto.


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La prima è una piccola tavola che convoca quattro personaggi, Cristo morto, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea e la Maddalena; dunque non consanguinei come Maria di Cleofa o la Madonna, bensì amici, accomunati dalla medesima affezione personale per Gesù. Mentre Nicodemo offre – come riferisce la Scrittura – la mistura di unguenti per il defunto, Giuseppe ne sorregge il corpo e Maddalena spalma il balsamo sul dorso trafitto della mano, in un delicato e spettacolare intreccio di dita; tutti a occhi chiusi o socchiusi, si avverte il loro sofferto silenzio, forse qualche sommesso singulto della donna, mentre preparano il cadavere dell’amico ingiustamente ucciso per l’addio sepolcrale.

A dire qualcosa è solo il cielo, non più fosco o grigio, tra le bianche nubi che il vento soffia via si affaccia l’azzurro; i pietosi dolenti, chini sul corpo esanime, non possono vederlo ma presto anche la loro tristezza sarà soffiata via e proprio lei, Maddalena, nel giro di alcune ore, sarà la prima a farne esperienza.

Ma se qui può toccarLo, tenerGli le mani e lenirne le piaghe, all’alba di domenica potrà solo essere investita dalla gloria luminosa del Risorto: noli me tangere. Un quadro che è dunque l’opposto d’una danse macabre, genere così in voga a quel tempo, il contrario di un disperato “finale di partita”, giacché in esso vive un germe di speranza pur nell’istante più cupo.

È una tavola che era piaciuta assai agli sgherri di Napoleone razziatore, che l’aveva fatta deportare al Louvre dalla chiesa di san Francesco a Pesaro (1797) e del cui fortunato riscatto si sono poi giovati i Musei Vaticani, che l’hanno incamerata al suo ritorno (1820) dalla cattività parigina.

Se Bellini pone la sua raffigurazione nella dimensione fisica e storica dei fatti e dei personaggi narrati dai Vangeli, il Sodoma (va sempre ricordato che il soprannome del vercellese Bazzi, artista dalla vita sregolata e stravagante, nulla ha a che fare con la sodomia, bensì deriva dalla locuzione “su ‘nduma”, “su andiamo”, del dialetto piemontese–lombardo, sua lingua d’origine) sceglie per la sua visione un piano meta–fisico e mistico, dove al Cristo morto punteggiato di sangue si affiancano quattro creature spirituali con le ali.

L’esangue volto del Morto è d’uno struggimento intenso, gli angeli che lo sorreggono paiono invece d’un fisso attonito, come inebetiti ed emerge qui – a differenza della dimensione comunitaria, “sociale” si direbbe, del compianto giambelliniano – la solitudine estrema di Cristo che solo il Cielo può confortare.

A entrambi i dipinti, oltre che il restauro effettuato, in tempi diversi, dai Musei Vaticani, è comune l’assoluta centralità compositiva del corpo e quella carne perita, destinata non alla putrefazione bensì alla resurrezione, sigilla uno dei dogmi più misteriosi e densi di speranza del credo cattolico: la redenzione della carne. La realtà creata sarà salva tutta intera, “neanche un capello” andrà perduto.

La dialettica pittorica (Bellini) terra-cielo (Sodoma) innescata dal dialogo tra i due capolavori che si fronteggiano a Castelgandolfo prefigura poi quasi una relazione spirituale tra l’atto di compassione terrena e la ricompensa della Pietà celeste, tale da far sperare che ogni compianto in questa vita diventerà pegno d’una sovrumana Consolazione nell’altra. La grande arte può suscitare ai nostri occhi anche questo desiderio.

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