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Home » Cultura » Arte » ARTE E FEDE/ Simon De Baschenis, nelle danze macabre un’apertura all’eternità

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ARTE E FEDE/ Simon De Baschenis, nelle danze macabre un’apertura all’eternità

Nicola Ruisi
Pubblicato 2 Novembre 2025
Danza macabra (1519, particolare), Chiesa di santo Stefano, Carisolo (Trento)

Danza macabra (1519, particolare), Chiesa di santo Stefano, Carisolo (Trento)

Le “danze macabre” sono caratteristiche del tardo Medioevo. In esse l’inquietudine diviene apertura al Signore di tutto, anche della morte

Ogni vera espressione artistica è una finestra aperta sulla storia dell’umanità, che spinge a porsi interrogativi profondi non solo sui tempi in cui è stata creata, ma anche sul presente. È il caso delle rappresentazioni chiamate “danze macabre”, caratteristiche del tardo Medioevo. Esse rivelano una concezione dell’uomo e della morte che ha condizionato la cultura occidentale fino ai nostri giorni. In Val Rendena (Trentino), a Carisolo e Pinzolo, è possibile ammirarne due, realizzate da Simon De Baschenis Pingebat e risalenti alla prima metà del XVI secolo.


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L’atteggiamento dell’uomo medievale nei confronti della morte, almeno fino all’XI secolo, è caratterizzato da una certa “familiare rassegnazione al destino comune della specie”, sintetizzabile nella formula: “Moriremo tutti”.

A partire dal XII secolo si afferma però una visione nuova. Nasce infatti “un sentimento più personale e più intimo”, indice di un “intenso attaccamento alle cose della vita” e insieme di “una passione di essere, un’inquietudine di non essere abbastanza” (cfr. P. Ariès, Storia della morte in Occidente, 2012).


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Tale mutamento di sensibilità, forse accentuato dalle epidemie, carestie e guerre che affliggono la popolazione europea tra XIV e XVI secolo, contribuisce alla nascita di un nuovo immaginario collettivo che sfocia nell’espressione artistica della “danza macabra” (cfr. G. Trotta, Danze macabre italiane e teatro della memoria, 2003).

Si comincia a rappresentare la morte sotto forma di scheletro o cadavere in decomposizione che danza con esponenti di ogni età e condizione sociale. Lo scopo principale è quello di ricordare a tutti la comune condizione mortale. Ariès osserva però che queste raffigurazioni sono segno non di paura, bensì “di un appassionato amore per la vita e della consapevolezza dolorosa della sua fragilità”.


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L’affresco di Carisolo, realizzato nel 1519 (vent’anni prima di quello della chiesa di san Vigilio di Pinzolo), occupa l’intera parete meridionale della chiesa di santo Stefano. Venti riquadri mostrano un cadavere (pelle e ossa) che trascina nella danza, uno dopo l’altro, un papa, un cardinale, un vescovo, un sacerdote, un monaco, un imperatore, un re, un gentiluomo, un guerriero, un avaro, un giovane galante, un mendicante, un fanciullo, una monaca, una gentildonna e un’anziana devota (cfr. F. Chiappani – G. Trenti, Santo Stefano in Carisolo, 2015).

Il corteo è aperto da scheletri musicanti che al suono di trombe e zampogna intonano un canto minaccioso: “Io sonte la morte che porto corona – sonte signora de ognia persona”. L’epilogo presenta la morte in sella a un cavallo alato che scocca frecce sui vivi.

Il cuore teologico dell’affresco emerge nella figura del Cristo risorto, primo personaggio a essere “chiamato” dalla morte. Egli si rivolge allo spettatore dicendo: “O tu che guardi pensa de costei – la me a morto mi – che son signor de lei” (Lei ha ucciso me che sono signore di lei).

Danza macabra (1539, particolare), Chiesa di san Vigilio, Pinzolo (Trento)

Il testo, scritto in lingua volgare, afferma esplicitamente la vittoria del Risorto, il suo essere superiore alla morte (cfr. M. Tessarolo, Il passaggio dalla simbologia coreografica ad altre simbologie artistiche: l’esempio della Danza Macabra, 1986).

Secondo Ariès, tali immagini – utilizzate dagli ordini mendicanti anche a scopo pastorale, per suscitare il timore della dannazione – esprimono, come già detto, una passione per la vita, ma anche “la consapevolezza del fallimento della vita, il senso di delusione e di scoraggiamento”. I cadaveri putrefatti ricordano che “la morte rappresenta la fine di tutto e, principalmente, la fine del corpo” (G. Trotta, 2003).

L’insistenza sulla brevità dell’esistenza terrena, però, non intende favorire il ripiegamento su sé stessi, quanto piuttosto l’apertura verso l’eternità. Risuona, cioè, l’invito a vivere in grazia di Dio, compiendo opere di misericordia, facendo penitenza e rifuggendo l’attaccamento al denaro, al potere e ai piaceri terreni. Più ancora è forte l’invito a considerare la morte come un passaggio verso Cristo, perché esiste la morte, ma esiste anche un Signore della morte. Mariselda Tessarolo evidenzia un’ulteriore sfumatura: “Solitamente situati all’esterno di chiese o di cimiteri, tali affreschi possono rivestire un significato allegorico: Nulla salus extra ecclesiam!”.

Se i tempi antichi conoscono la morte come rito comunitario, solenne e in qualche modo rasserenante – poiché si riconosce nella morte il destino comune –, a partire dal tardo Medioevo si afferma dunque una nuova consapevolezza. Possiamo dire che nello speculum mortis si impara a riconoscere la meta del proprio cammino personale. Alla formula “Moriremo tutti” se ne affianca un’altra più stringente: “Io morirò”. Dalla rassegnazione al destino comune si passa alla concezione della morte come ingresso del singolo nell’eterno.

Dopo tanti secoli, la situazione è molto cambiata. Viene da chiedersi dove sia finita la saggezza delle “danze macabre” che un tempo ammonivano re, papi e mendicanti. Sebbene quegli scheletri continuino a ricordare che nessuno può sfuggire alla morte, noi uomini moderni preferiamo ignorarli, nascondendoci dietro illusioni, eufemismi o silenzi.

Perfino ai malati più gravi neghiamo il diritto di sapere che stanno per morire, come se dirglielo fosse atto da violenti, e così neghiamo loro la possibilità di affrontare gli ultimi istanti con consapevolezza e dignità. Sarebbe più umano guardare alla morte col realismo dei medievali, senza disperazione, certi che neppure la morte è contro la nostra realizzazione, pieni di fiducia in Colui che l’ha vinta e ne è diventato per sempre Signore.

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